PUBBLICITÁ

Il Foglio sportivo

Il grande racconto americano è ovale

Giovanni Francesio

Ecco i playoff di Nfl, verso il Superbowl. Tra stadi vuoti per il Covid, nomi di squadre  cambiati per  razzismo, quarterback trumpiani e pronostici ribaltati, il football spiega meglio di mille analisi gli Stati Uniti di oggi  

PUBBLICITÁ

Il 10 marzo 2017 ci fu un altro assedio a Capitol Hill, a Washington: molto più partecipato, e molto più controllato (ancorché del tutto pacifico) rispetto a quello dei Proud boys di Trump del 6 gennaio scorso. Venne chiamata “Native Nations Rise March”, e fu il momento culminante delle proteste dei nativi americani, guidati dalla Standing Rock Sioux Tribe, che contestavano all’Amministrazione Trump l’aver dato il via libera al contestatissimo oleodotto del North Dakota, che violava e violentava il territorio dei nativi. La manifestazione finì per travalicare la questione dell’oleodotto, e si allargò di significato fino a diventare un grande momento identitario per quello che oggi resta di un popolo distrutto. 

ABBONATI PER CONTINUARE A LEGGERE
Se hai già un abbonamento:

Altrimenti


Il 10 marzo 2017 ci fu un altro assedio a Capitol Hill, a Washington: molto più partecipato, e molto più controllato (ancorché del tutto pacifico) rispetto a quello dei Proud boys di Trump del 6 gennaio scorso. Venne chiamata “Native Nations Rise March”, e fu il momento culminante delle proteste dei nativi americani, guidati dalla Standing Rock Sioux Tribe, che contestavano all’Amministrazione Trump l’aver dato il via libera al contestatissimo oleodotto del North Dakota, che violava e violentava il territorio dei nativi. La manifestazione finì per travalicare la questione dell’oleodotto, e si allargò di significato fino a diventare un grande momento identitario per quello che oggi resta di un popolo distrutto. 

PUBBLICITÁ

 

In quella massa variopinta spiccavano manifesti e cartelli con scritte come “Not Your Mascot” e “Change the name”, che si riferivano a un’altra battaglia condotta dai nativi americani negli ultimi anni, ossia quella per togliere l’uso di nomi e loghi riferiti al mondo indiano dall’iconografia delle squadre sportive americane, a partire dal più famoso e, per i nativi, più urticante, ossia quello della squadra di football della capitale, i Washington Redskins.

 

PUBBLICITÁ

Cancel culture? Può darsi, anche se in quanto a “culture cancellate” i nativi americani hanno più titolo di  altri per parlare; e quegli indiani che, per quanto dispersi e inurbati, continuano a sentirsi popolo, vivono con amarezza e dolore l’uso dei loro simboli – a partire dal celebre “monoscopio della testa indiana”, usato dalla televisione americana fino alla fine degli anni Settanta – come strumenti di marketing di una cultura diversa, tanto più quando si tratta della cultura della civiltà che li ha sterminati.

 

La battaglia per l’oledotto è ancora in corso, quella per il logo dei Washington Redskins invece i nativi l’hanno vinta, e da quest’anno – proprio nei giorni delle rivolte per la morte di George Floyd – la squadra della capitale è diventata, semplicemente, Washington Football Team: i colori sono gli stessi, il giallo e il rosso, ma sui caschi dei giocatori e su tutto il resto la testa indiana è sparita, e il nome “pellerossa” anche. È un fatto storico: quella di Washington è una delle squadre più antiche d’America, e ha molti sostenitori in tutto il mondo; cambiarne nome e simbolo non è stato un passaggio indolore, né semplicemente formale.  

 

Eppure quei caschi con i numeri, come quelli delle squadre delle high school, che all’inizio suonavano così stonati, non hanno portato  male, visto che Washington alla fine di una stagione rocambolesca e nonostante un record negativo (7 vittorie e 9 sconfitte) ha comunque vinto la sua conference ed è tornata ai playoff, dai quali mancava dal 2015.

PUBBLICITÁ

 

PUBBLICITÁ

E siccome al destino piace giocare, e lo sport è uno dei suoi terreni preferiti, chi si è trovata di fronte Washington nel Wild Card Round, nel suo stadio, 72 ore dopo l’assalto a Capitol Hill degli estremisti trumpiani? I Tampa Bay Buccaneers, in questa stagione guidati da quello che in molti considerano il più grande quarterback di sempre, Tom Brady, andato in Florida a chiudere la carriera dopo tutti gli anni passati al freddo del Michigan e del New England. 

 

PUBBLICITÁ

Se c’è uno sportivo americano di primo piano che non ha mai nascosto la sua simpatia per Trump quello è proprio Brady, anche se si è sempre rifiutato, va sottolineato, di fare apprezzamenti squisitamente politici. Ma stiamo parlando di un (ex) presidente che, nei confronti dei giocatori della Nfl aderenti a Black Lives Matter, che si inginocchiavano per protesta durante l’inno nazionale, disse “buttate quei figli di puttana fuori dal campo”, per cui anche solo la “non ostilità” è bastata a mettere spesso Brady al centro di polemiche extrasportive, negli ultimi quattro anni. 

 

Ancora una volta dunque tensioni e contraddizioni della politica e della società americana hanno trovato un riflesso e una declinazione nello sport, e forse erano in molti a sperare che sabato scorso Washington, con il suo nuovo nome, o meglio senza il suo vecchio nome, ribaltasse il pronostico, e tornasse a vincere una partita di playoff dopo quindici anni. Sarebbe stata una bella storia.

 

Ma contro Brady i pronostici non si ribaltano quasi mai, per cui hanno vinto i Buccaneers (che non passavano un turno ai playoff dal 2003), e Brady, 43 anni, ha dato l’ennesima dimostrazione di classe, freddezza, carisma, forza. 

 

Questo fine settimana si torna in campo con il Divisional Round. A New Orleans Brady si troverà di fronte l’altro grande vecchio del football contemporaneo, Drew Brees, 41 anni, unico quarterback che nell’ultimo decennio è riuscito a tenergli testa, in un “derby del sud” che si preannuncia equilibratissimo, a differenza dell’altro incontro della National football conference, quello tra i Green Bay Packers (13 vittorie e 3 sconfitte al termine della regular season) e i Los Angeles Rams, che hanno già fatto un mezzo miracolo vincendo il wild-card a Seattle (approfittando forse anche della mancanza del pubblico più caldo d’America), ed è difficile immaginarli espugnare il Lambeau Field, sconfiggendo il freddo del Wisconsin e soprattutto Aaron Rodgers, il quarterback dei Packers, forse mai solido e decisivo come quest’anno.

 

Dall’altra parte, nella American football conference, entrano in scena i Kansas City Chiefs (ossia “capi indiani”, e loro il nome non l’hanno cambiato, non ancora), campioni in carica, col miglior record (14-2) della stagione, favoriti per la vittoria finale secondo tutti i bookmaker. La squadra è fortissima, e Patrick Mahones, il giovane e meraviglioso quarterback, sembra sempre più destinato a segnare la storia del gioco; ma l’Nfl, diversamente dai campionati di calcio europei, fa di tutto perché ci sia equilibrio, e vincere due volte di fila non è cosa di tutti i giorni: gli ultimi a riuscirsi sono stati i New England Patriots (Brady, tanto per cambiare) nel 2003 e 2004. E poi non bisogna dimenticare che l’Nfl ama le favole, e non c’è nessun dubbio sul fatto che la favola più bella di questa stagione sia quella dei Cleveland Browns dell’altro giovane quarterback emergente, Baker Mayfield, che non vincevano una partita ai playoff dal 1994 e che domenica notte, dopo anni di sanguinose sconfitte, hanno battuto, per la gioia irrefrenabile di una città intera, i loro storici e altezzosi rivali, ossia i Pittsburgh Steelers, dominatori della prima fase del campionato. “What an amazing story”, continuavano a ripetere i telecronisti durante la partita, e chissà che la storia non continui a Kansas City domenica prossima, all’Arrowhead Stadium.

 

A chiudere il Divisional Round della Afc, Buffalo Bills contro Baltimore Ravens, a Buffalo, in una partita del tutto impronosticabile, anche se Baltimore viene da sei vittorie consecutive e sembra avere un po’ più vento nelle ali.

 

È ancora tutta da scrivere, dunque, la storia di questa strana stagione di football, giocata quasi sempre e quasi ovunque senza pubblico (e l’Nfl era il campionato sportivo con la più alta media spettatori del mondo), ma che ha visto comunque una grande prova organizzativa da parte della Lega, che è riuscita a rispettare perfettamente il calendario. L’unica cosa certa è che il 7 febbraio, giorno del Superbowl, ci sarà un nuovo presidente degli Stati Uniti a congratularsi con i vincitori: Joe Biden, tifosissimo dei Philadelphia Eagles, di cui festeggiò sul campo la vittoria nel Superbowl 2018. C’è però un piccolo particolare da non sottovalutare, una bizzarra coincidenza che dovrebbe mettere in allarme tutti gli avversari dei Buccaneers e del “vecchio” Tom Brady: il Superbowl quest’anno si disputerà proprio a Tampa Bay. Perché al destino piace giocare.

Di più su questi argomenti:
PUBBLICITÁ