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L'altra Africa di Fausto Coppi, il marsigliese

Giovanni Battistuzzi

Se quel 2 gennaio del 1960 il Campionissimo si fosse salvato dalla malaria cosa sarebbe successo? Un racconto

Domani, 2 gennaio, è il sessantunesimo anniversario della morte di Fausto Coppi. Ma cosa sarebbe successo se, in quelle convulse giornate intorno al capodanno del 1960, il destino si fosse distratto o scostato di poco dal suo tragico piano e avesse consentito a Fausto Coppi di continuare la sua ancora giovane esistenza? In "Fausto Coppi. Una vita in più", (Bolis edizioni, 128 pagine, 14 euro) ci sono venti racconti, venti possibili vite che il Campionissimo non è riuscito a vivere.

 

Questa, intitolata "Il marsigliese", è la versione di Giovanni Battistuzzi che troverete nel libro.

  


  

Il telefono in salotto squillò che la sera stava per tramutarsi in notte. Svogliato rispose dopo almeno una mezza dozzina di squilli, ché a quell’ora, lo sapeva benissimo, erano solo rogne. 

 

«Lascia tutto quello che stai facendo e vai a letto. Tra sette ore hai un aereo. Portati roba leggera. Vai in Africa».  

 

Avrebbe voluto rispondergli che no, che tra due giorni era il suo compleanno, che voleva farsi un fine settimana in giro con Hélene. E poi: che cosa diamine c’andava a fare in Africa. Si perse in un silenzio che gli parve lunghissimo. Era da una vita che non lasciava la sua sedia in redazione. Forse per questo disse solo:  «Va bene. Ma in Africa dove?». 

 

«Alto Volta, sta per succedere un casino».

 

La voce del suo direttore si spense in un «mi raccomando», che più che di preoccupazione, era di delusa rassegnazione. Se s’era rivolto a lui era perché probabilmente non aveva trovato nessuno dei suoi da mandarci in Africa. Lo conosceva bene il suo direttore. C’aveva la truppa, che era tutto, un manipolo di egomaniaci troppo impegnati nello specchiarsi per lavorare. E poi gli altri, che erano niente. Si ricordava di loro solo per i rimproveri che evitava di fare a se stesso. O per affidare gigantesche rotture di balle. 

 

Il cielo di Parigi lo lasciò che l’alba aveva appena iniziato a dorare le nubi. Quello di Ouagadougou lo incrociò che il tramonto era pronto a sloggiare. 

 

Quando uscì da quella stamberga che con un certo ottimismo chiamavano aeroporto aprì la busta che qualcuno della redazione gli aveva lasciato nella buca delle lettere. C’era una storia recente dell’Alto Volta, cosa per lui totalmente inutile dato che di cose africane se ne era occupato per anni, una serie di direttive su quello che c’era da seguire e qualche ipotesi su quello che sarebbe potuto succedere. Colpo di stato, c’era scritto. «Sai che novità», sogghignò lui. Poi una serie di indirizzi e un nome: Gustave Charon. Chi diamine fosse quel Gustave Charon non lo sapeva. Forse avrebbe dovuto aprire la busta prima della sua partenza, chiedere lumi. Ormai era tardi. Si accese una sigaretta e cercò un tassì. Aveva un paio di idee di dove andare, vecchi ricordi che durante il volo gli erano affiorati alla memoria. Dal suo ultimo suo soggiorno in Alto Volta era passata una vita e un paio di ribaltamenti di regime. 

  

Quel nome e cognome si levarono dalla carta e si materializzarono in un lungagnone dagli occhi spettrali e dalla pelle caffelatte prima ancora che si fosse avvicinato ai tassì. Una montagna d’uomo che gli si parò davanti con un sorriso benaugurante totalmente in disarmonia con lo sguardo.  

 

«Sono Gustave Charon. Immagino tu sia il giornalista».  

 

Un francese perfetto, parigino. Vestiti curati, roba di lì, ma portata all’occidentale. Doveva essere la sua guida.  

 

«Piacere, Lucien Garrigou». 

 

Era uno di molte parole, Gustave. Uno a cui piaceva chiacchierare, raccontare della sua terra. O almeno di quella metà nella quale aveva deciso di vivere. La Francia l’aveva lasciata anni prima. Tra tirare la cinghia dove c’era tanto e trattarsi bene dove c’era meno, aveva scelto la seconda. A Ouagadougou, raccontò, che male non si stava, a patto di lavorare con gli europei. Poi aggiunse che le cose stavano cambiando, che i tanti che avevano poco o niente si stavano stufando di vedere pochi avere troppo e che parte dell’esercito voleva fare lì quello che Castro e il Che avevano fatto decenni prima a Cuba. In Alto Volta le notizie arrivano dopo. Rise di gusto.

  

Per due giorni si fece accompagnare di qua e di là da Charon a bordo di una jeep che sembrava essere uscita da uno sceneggiato televisivo sulla campagna d’Africa di terza categoria. Riempì pagine e pagine di appunti. Intervistò persone, abbozzò qualche schizzo di paesaggi e scorci urbani, come non gli capitava da anni. Tutto sommato ancora la mano non l’aveva abbandonato, constatò quando la sua guida gli chiese se gli avesse dato uno di quegli schizzi, che l’avrebbe regalato alla sua donna che era appassionata di pittura. 

 

In tutto quel muoversi, parlare e osservare, Lucien Garrigou trovò il tempo di scrivere la prima puntata del suo reportage. Puntuale si presentò all’ufficio di telefonia internazionale dove aveva prenotato una chiamata con la Francia. Una mezz’ora di linea garantita gli sarebbe dovuta bastare aveva detto al grasso telefonista sbragato sulla sedia, annoiato e semi dormiente. 

  

L’ufficio era un polveroso stanzone al piano terra di un edificio in cemento sulla via principale di Ouagadougou, a un passo dagli alberghi per europei e americani. Mentre dettava, dalla finestra vedeva Gustave fumarsi il sigaro seduto sul bordo di una fioriera senza fiori, mentre fuoristrada e macchinone che venivano da oltreoceano sollevano un polverone al quale il suo sodale sembrava non dare il minimo peso. 

  

Fu quando arrivò all’ultimo punto che i suoi ricordi d’infanzia gli si materializzarono d’un tratto davanti. Tagliò corto con la dimafonista, pagò di corsa quello che doveva pagare, senza questionare minimante per la cifra esorbitante che gli aveva chiesto il panzone ancora stravaccato pigro dietro il banco. E corse fuori. 

  

Gli sembrava impossibile di aver visto quello che aveva visto. Quel signore che si era voltato verso le vetrate e che ora camminava sul marciapiede all’altro lato della strada, non poteva essere reale. Soprattutto non poteva essere lui. 

  

«L’hai visto quel signore vestito di blu?». 

  

Gustave Charon si guardò attorno, intercettò con lo sguardo l’uomo, poi con uno sbuffo molto parigino disse che sì, l’aveva visto, che l’aveva visto più di una volta e che con certa gente era meglio non avere a che fare. Che a Ouagadougou c’era parecchia gente così. 

 

All’«andiamo» del giornalista, Charon se ne uscì con un sei matto e un improperio. Non servì a nulla. Lucien aveva attraversato la strada e cercava di raggiungere l’uomo vestito di blu. Senza però riuscirci. L’auto era già scomparsa dentro una nuvola di polvere. 

 

Era davvero lui? Più passavano i secondi più si convinceva di aver avuto un abbaglio. Eppure quando l’aveva visto ne era stato sicuro. Il suo volto non era cambiato. Certo aveva dei baffetti alla Clark Gable, i capelli erano ormai parecchio imbiancati, ma quello era il viso che aveva visto migliaia di volti alzando gli occhi dal suo letto. E poi quel naso, lo stesso che vedeva raffigurato in quel poster. 

 

«Ma sei impazzito? Non siamo mica in Europa qui, stupido di un parigino!» lo rimproverò Charon. 

 

«Ma…». 

 

«Quello è uno che è meglio non averci a che fare».  

 

Lo lasciò là impiantato, furente per l’idiozia dell’europeo. Che lo raggiunse.  

 

«Sai dove abita?».  

 

«Certo che sì Ma ti ripeto lascia perdere».  

 

«Portami là, o almeno là vicino, poi ci penso io».  

 

«Perché?».  

 

«Perché è importante. Per me. È una di quelle notizie che ti capitano una volta nella vita e che se le lasci andare ti mangeranno le notti per sempre». 

 

Charon allargò le braccia. «Non dirmi niente però. Se tu vuoi finire i tuoi giorni in Alto Volta io non ne voglio sapere». 

 

Salirono sulla jeep. 

 

Se lo ricordava bene quando aveva appreso della malattia. Quando si pensava stesse per morire. Quando i giornali titolarono che era salvo. Un sollievo che durò poco. Passò qualche mese e dopo scomparve. Per anni sul mistero si sprecarono fiumi d’inchiostro. Poi se ne seppe più nulla. La gente dimentica, gli aveva detto suo padre. Lui però non poteva dimenticare quei pomeriggi al Vel d’Hiv in fila al freddo pur di vederlo correre. Era il suo idolo. Le imprese lette in differita, i ricordi delle sfide coi tappi, quel senso di vuoto che sentì il giorno della sua scomparsa, gli iniziarono a rimbalzare in testa, una confusione totale. Doveva raggiungerlo. Doveva parlare con lui e fugarsi il dubbio. 

 

«Siamo arrivati», lo avvisò Charon. 

 

La macchina, la stessa nella quale era scomparso l’uomo con il vestito blu, stava avvicinandosi alla cancellata di una villa enorme, contornata da un nulla interminabile di savana. 

 

«Monsieur Coppì, monsieur Coppì» iniziò a gridare correndo verso la macchina. Da quella che la seguiva uscirono due energumeni armati come fossero in guerra.  

 

«Monsieur Coppì, monsieur Coppì» continuò a gridare, prima di paralizzarsi alla vista dei fucili puntati verso di lui. Senza accorgersene si ritrovò in ginocchio nella polvere, immobile con le braccia alzate. Impietrito. 

 

Dal finestrino una mano ordinò agli uomini di fermarsi. 

 

Il vestito blu uscì, accarezzandosi i baffetti. «Come mi hai chiamato?», chiese con un francese perfetto ma dal pesante accento italiano. 

 

Il giornalista provò a rispondergli, ma la voce gli si era nascosta in gola. Prese fiato. Deglutì, riuscendo a mettere a fuoco la figura che gli era davanti. Era lui, ne era sicuro.  

 

«Monsieur Coppì», balbettò. 

 

L’uomo nel vestito blu rise.  

 

«Non sentivo quel cognome da una vita. Non ricordavo più nemmeno che suono avesse. Non sono io mi spiace», sibilò tornandosene verso la macchina. 

 

«Monsieur Coppì», ripeté Lucien iniziando a elencare l’albo d’oro del Campionissimo.  

 

L’uomo nel vestito blu si fermò. Lentamente si voltò.  

 

«Chi sei?». 

 

«Lucien Garrigou, monsieur Coppì. Faccio il giornalista». 

 

«Come mi hai trovato?». 

 

«Non la stavo cercando. L’ho vista per caso prima. Ero un suo tifoso. In bici ho iniziato ad andare per lei. Poi le cose non sono andate come volevo da piccolo». 

 

«Volevi fare il corridore?». 

 

«Non sa quanto». 

 

Fausto Coppi sorrise. Gli disse di alzarsi da terra, di seguirlo.  Parlare con qualcuno di umano era un’occasione che non si sentiva di perdere. 

 

Si ritrovarono seduti sotto una pompeiana sul retro della villa color ocra a guardare l’infinità della savana, la tenuta di caccia di monsieur Coppì, che altro non era ormai che la sua ragione d’esistere. Davanti a lui aveva un uomo stanco, tirato nel viso, che guardava il mondo con occhi induriti dal tempo, nei quali non riusciva nemmeno a intravedere quelli timidi e sognanti che scorgeva in quel suo poster adolescente. 

 

Fausto Coppi non era più lui. Si faceva chiamare Gino Mouton, ma per tutti era ormai il marsigliese. Gli raccontò del risveglio, del tentativo di tornare a essere corridore e uomo. Dei litigi con Giulia, della paura del futuro, di quella febbre d’Africa che a volte tornava e che aveva lasciato in lui larve di rimpianto. Rimpianto per quello che aveva lasciato. E quel richiamo che sentiva incessante, che lo aveva spinto su di un aereo che il suo amico e impresario francese, André Mouton, gli aveva messo a disposizione per ritrovarsi. Gli raccontò il ritorno in Alto Volta, di quella tenuta che il presidente Maurice Yaméogo in persona gli aveva donato, di come si fece mandare alcuni fucili da caccia e di come poi, negli anni, quello di far arrivare fucili e pistole da Italia e Francia fosse diventata la sua professione, suo malgrado.  

 

«Ho anche vissuto dei grandi anni», sibilò. «Certo a che prezzo?». 

 

La sua domanda cadde nel vuoto. 

 

Guardò l’orizzonte che si arrossava.  

 

«Oramai è tutto finito. Il mio aereo è pronto. L’Alto Volta avrà nuovi padroni e tutto tornerà uguale a prima, cambieranno solo i protagonisti. Dovrò iniziare da capo, ancora una volta». 

 

Fausto Coppi si alzò, disse ai suoi uomini di guardia di prendere i borsoni e portarlo all’aeroporto. Lucien Garrigou lo seguì, in silenzio. 

 

In macchina parlarono di biciclette, si fece raccontare come il ciclismo fosse cambiato, di come Eddy Merckx avesse fatto scricchiolare il nome di Coppi e di come questo era resistito. Della forza di Hinault e di come Gino Bartali fosse diventato memoria del Coppi campionissimo. Fausto sorrise. Il Gino dopo tutto non è cambiato, il solito chiacchierone. 

 

La macchina entrò da un’entrata secondaria dell’aeroporto. Venne affiancata da una camionetta dei militari. Monsieur Gino Mouton e il giornalista vennero fatti salire sul fuoristrada verde. 

 

Ci vollero ore, molta sopportazione del dolore e un intervento dell’ambasciata francese per convincere i nuovi capi barbuti del paese che lui era solo un giornalista e che nulla centrava con tutto quello che Mouton aveva fatto. In un modo o nell’altro lo capirono in tempo per trovare il tempo di scrivere. 

 

«Con dodici colpi di fucile, gli stessi che per anni aveva venduto un po’ a tutti, finiva anche la seconda vita di Fausto Coppi, o meglio il Marsigliese, Gino Mouton, come di faceva chiamare qui. Punto», dettò alla dimafonista.

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