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Con questo Milan non bisogna affidarsi alla ragione, ma ai polsi

Giuseppe Pastore

I rossoneri sono ancora al comando delle Serie A. Possono davvero vincere lo scudetto? L'Inter rimane la grande favorita, ma la squadra guidata da Stefano Pioli sta mettendo paura a tutti

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Nell'Italia divorata dal cinismo e dalla disillusione, in cui persino una notizia oggettivamente bella come l'arrivo del vaccino anti-Covid è stata travolta da secchiate di sarcasmo dopo nemmeno mezza giornata, c'è una sacca di resistenza imprevista e imprevedibile. Forse perché tutta la depressione del mondo era già stata accumulata e spalmata nei sette anni precedenti, con la mazzata finale del 5-0 di Bergamo simbolicamente collocata a fine decennio; ma nessuno come il Milan si è dimostrato impermeabile all'aria che tira da dieci mesi, e anzi si direbbe proprio che abbia persino tratto una qualche incredibile energia positiva da un periodo così nefasto, che ha colpito duro e sleale, allo stomaco, la città in cui vive e lavora. Una squadra che merita il titolo di “squadra dell'anno” 2020 – o forse, allargando il campo, “gruppo di lavoro” dell'anno 2020 – anche soltanto perché si sta divertendo. E tra le altre cose, si sta divertendo a smontare con regolarità scientifica, uno dopo l'altro, tutti i “sì, però” di cui il nostro Paese sarebbe primatista olimpico, se il “sì, però” fosse disciplina olimpica (ma abbiamo idea che in questo periodo il CONI sia in tutt'altre faccende affaccendato).

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Nell'Italia divorata dal cinismo e dalla disillusione, in cui persino una notizia oggettivamente bella come l'arrivo del vaccino anti-Covid è stata travolta da secchiate di sarcasmo dopo nemmeno mezza giornata, c'è una sacca di resistenza imprevista e imprevedibile. Forse perché tutta la depressione del mondo era già stata accumulata e spalmata nei sette anni precedenti, con la mazzata finale del 5-0 di Bergamo simbolicamente collocata a fine decennio; ma nessuno come il Milan si è dimostrato impermeabile all'aria che tira da dieci mesi, e anzi si direbbe proprio che abbia persino tratto una qualche incredibile energia positiva da un periodo così nefasto, che ha colpito duro e sleale, allo stomaco, la città in cui vive e lavora. Una squadra che merita il titolo di “squadra dell'anno” 2020 – o forse, allargando il campo, “gruppo di lavoro” dell'anno 2020 – anche soltanto perché si sta divertendo. E tra le altre cose, si sta divertendo a smontare con regolarità scientifica, uno dopo l'altro, tutti i “sì, però” di cui il nostro Paese sarebbe primatista olimpico, se il “sì, però” fosse disciplina olimpica (ma abbiamo idea che in questo periodo il CONI sia in tutt'altre faccende affaccendato).

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Per spensieratezza, energia, allegria effervescente e un po' tendente alla stupidéra, questo Milan sembra uscito dritto dagli anni '80, ovviamente rimodulati in base alle moderne tecnologie e usanze calcistiche: pur con tutta la romanticheria del mondo, ricordiamoci che attualmente la società fa pur sempre capo a un fondo speculativo. L'inizio di questo ciclo di cui non si vede la fine – eppure la fine potrebbe arrivare da una partita all'altra, e il bello è proprio questo – ricorda i primi due versi di Absolute Beginners, la ballatona di David Bowie che stava incastonata proprio in mezzo agli Ottanta. I've nothing much to offer/there's nothing much to take. L'ebbrezza del “nulla da perdere” può rendere invincibili ed è quello che è successo al Milan senza nemmeno che se ne accorgesse, lasciando che fosse, seguendo la corrente di un campionato inattendibile. Forse è stato questo il suo unico colpo di fortuna del 2020: il fatto che le goleade di giugno e luglio non aggiungessero alcun peso sulle spallucce di giocatori ancora tutti da dimostrare: tutto il resto – i pali del Rio Ave, i gol all'ultimo minuto, gli ultimi sette gol segnati da sette giocatori diversi – è il prodotto di un'energia positiva e di un ottimismo della volontà del tutto sconosciuti all'Italia inerte di oggi e perciò messi alla berlina, come ormai si cerca di sminuire o mettere in ridicolo ciò che non si conosce, o di cui non ci si ricorda più.

 

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Un altro viziaccio contemporaneo è la banalizzazione, la semplificazione brutale come strada maestra per capire qualcosa. Gli analisti hanno cercato a torto di ricondurre e ridurre un fenomeno inspiegabile – com'è a tutti gli effetti inspiegabile un Milan da 79 punti e 106 gol stagionali dopo anni di carestia – a un motivo, uno e uno solo. S'è cominciato in estate con gli spalti vuoti, che all'inizio hanno infuso un paradossale coraggio a una rosa non popolata da cuor-di-leone: ma chi oggi continua a ripetere che un San Siro privo delle sue tipiche centosessantamila corde vocali ha aiutato il Milan a rimontare due gol al Verona, due gol al Parma e a battere la Lazio al fotofinish molto semplicemente non sa di cosa parla. Si è continuato con Zlatan Ibrahimovic, a 39 anni variabile impazzita non solo del campionato, ma dell'intero calcio europeo, prodigioso nei tre scontri diretti contro Inter, Roma e Napoli: ma tutte le volte che ha dovuto periodicamente arrendersi ai tanti anelli del suo enorme tronco, se non proprio al Covid, il Milan ha risposto presentissimo, tanto che nel 2020 la media-punti delle gare senza Ibra è superiore a quella con Ibra, e gli immancabili due gol a partita sono sempre fioccati puntuali, e a volte già entro la prima mezz'ora.

 

Allora si è creduto che il segreto fosse dietro, in quel Simon Kjaer portato via con due spicci a un Gasperini che non sapeva che farsene. Ecco, Kjaer è forse la nota più dolorosa per chi ormai parla di calcio solo per parlare di soldi, il denaro per il denaro, una sclerotica tratta di calciatori-bovini, buoni solo per essere ceduti o scambiati con altri bovini e così via all'infinito. Le diffuse difficoltà economiche di questi mesi sembrano aver addirittura esasperato l'ossessione per il mercato di molti giornalisti e di molti tifosi, persino milanisti, che nonostante stiano vivendo il momento migliore del decennio hanno orecchie solo per le trattative future e si sono già dimenticati dello scetticismo che circondava un inverno fa giocatori come Kjaer e Saelemaekers, oggi essenziali. E difatti nelle ultime quattro partite senza Kjaer il Milan ha subito sette gol, almeno la metà dei quali di diretta responsabilità del suo tenero sostituto Kalulu: eppure ancora non perde, e anzi ha la faccia tosta di fare sei punti nella strettoia contro Sassuolo e Lazio che tutta Italia aveva individuato come il punto ideale per il sorpasso dell'Inter.

 

Alla fatidica domanda “Il Milan può vincere lo scudetto?”, dopo il derby di ottobre rispondevamo con ragionevole certezza: no, non può. Ribadiamo il pronostico, ma con un “ma” grosso come un grattacielo: perché di razionale la frenetica stagione 2020-2021 sembra avere ben poco, con pulsioni schizoidi che sballottano per esempio la Juve ennea-campeão da un 4-0 a favore a uno 0-3 a sfavore nel giro di 72 ore. La ragione dice Inter, che si è privata più o meno scientemente del peso della Champions League per progettare una velocità di crociera attorno ai 95 punti (le proiezioni a un terzo di campionato dicono più o meno questo).

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Ma non fate troppo affidamento sulla ragione, quella vecchia noiosona, che non avrebbe mai creduto a un Milan da 21 punti e 57 gol stagionali (!) in più rispetto all'anno precedente. Semmai, più che il cervello, peseranno i polsi: quelli che a primavera, se le cose staranno ancora così, tremeranno per forza in un Milan dalle bacheche personali molto più vuote della concorrenza. Il discorso vale anche per Stefano Pioli, il trait d'union più stabile e riconoscibile da gennaio a dicembre, che in carriera non ha mai vinto un fico secco e più di una volta ha balbettato nelle partite senza ritorno (ultima, la fatidica odissea col Rio Ave). Perciò, stante anche l'eccezionalità e l'inimitabilità di Ibrahimovic, ribadita anche in quest'ultima curiosa vicenda sanremese, per superare l'ultima collina e raggiungere la pentola d'oro alla fine dell'arcobaleno ci sarà bisogno di calare il carico da novanta: niente di più, e niente di meno, che Paolo Maldini. Che è un uomo di raffinati gusti musicali, e quando Bowie cantava quella canzone, stagione 1985-86, era letteralmente un absolute beginner del campo di calcio, come oggi lo è della scrivania. E lo sa bene a cosa servono quei versi urlati nel ritornello: a respirare, a camminare e a tenere la testa alta. A insegnare agli altri prima come si sta al mondo, e poi come si vince. There’s no reason/to feel all the hard times/to lay down the hard lines/it’s absolutely true ...

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