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Il Foglio sportivo

La Formula 1 ha schivato il Covid e chiude un mondiale scontato ma quasi divertente

Umberto Zapelloni

Si chiude ad Abu Dhabi il Mondiale del trionfo definitivo di Hamilton e della Mercedes. Il Circo ha retto, ma un altro anno senza pubblico è insostenibile. Nel 2021 si spera nel riscatto Ferrari

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Il Mondiale di Formula 1 quest’anno è andato lungo. Molto lungo. Non capitava dall’inizio degli anni Sessanta di disputare l’ultima gara a metà dicembre. A quei tempi (1962 e 1963) si corse addirittura il 29 e il 28. In 70 anni di storia è capitato anche di cominciare un campionato a fine dicembre con le qualifiche in un anno e la gara in quello successivo. Ma è già stato un miracolo disputarlo questo Mondiale. Con una bolla itinerante in giro per l’Europa alla scoperta di nuovi circuiti o alla riscoperta di vecchie piste ignorate da tempo perché non avevano i soldi per permettersi di ospitare un gran premio. Il Mondiale quest’anno non lo hanno vinto soltanto Lewis Hamilton e la Mercedes. Lo ha vinto anche Liberty Media che è riuscita in piena pandemia a costruire un campionato quasi mondiale su 17 tappe, non poche tutto sommato, dribblando i contagi nel miglior modo possibile. Quanto sia stato complicato lo dimostra il fatto che, fortunatamente a giochi fatti, sia stato fermato da un tampone anche Lewis Hamilton che pure ci ha raccontato di esser stato attentissimo, rinchiudendosi sempre in camera a mangiare da solo durante tutti i weekend dei Gran premi. Hamilton non si è accontentato di stravincere in pista, quest’anno ha voluto andare oltre, trasformare ogni gara in un messaggio a favore della campagna antirazzismo Black lives matter, si è inginocchiato prima di ogni Gran premio, ha fatto colorare di nero le Mercedes, ha promosso insieme a Toto Wolff un programma  “Accelerate 25” per far lavorare nel team il 25 per cento di persone provenienti da fasce o gruppi sotto rappresentati in Formula 1. Quando vincere non basta più.

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Il Mondiale di Formula 1 quest’anno è andato lungo. Molto lungo. Non capitava dall’inizio degli anni Sessanta di disputare l’ultima gara a metà dicembre. A quei tempi (1962 e 1963) si corse addirittura il 29 e il 28. In 70 anni di storia è capitato anche di cominciare un campionato a fine dicembre con le qualifiche in un anno e la gara in quello successivo. Ma è già stato un miracolo disputarlo questo Mondiale. Con una bolla itinerante in giro per l’Europa alla scoperta di nuovi circuiti o alla riscoperta di vecchie piste ignorate da tempo perché non avevano i soldi per permettersi di ospitare un gran premio. Il Mondiale quest’anno non lo hanno vinto soltanto Lewis Hamilton e la Mercedes. Lo ha vinto anche Liberty Media che è riuscita in piena pandemia a costruire un campionato quasi mondiale su 17 tappe, non poche tutto sommato, dribblando i contagi nel miglior modo possibile. Quanto sia stato complicato lo dimostra il fatto che, fortunatamente a giochi fatti, sia stato fermato da un tampone anche Lewis Hamilton che pure ci ha raccontato di esser stato attentissimo, rinchiudendosi sempre in camera a mangiare da solo durante tutti i weekend dei Gran premi. Hamilton non si è accontentato di stravincere in pista, quest’anno ha voluto andare oltre, trasformare ogni gara in un messaggio a favore della campagna antirazzismo Black lives matter, si è inginocchiato prima di ogni Gran premio, ha fatto colorare di nero le Mercedes, ha promosso insieme a Toto Wolff un programma  “Accelerate 25” per far lavorare nel team il 25 per cento di persone provenienti da fasce o gruppi sotto rappresentati in Formula 1. Quando vincere non basta più.

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Nonostante si sia capito dopo le prime due ore di test che il campionato lo avrebbe vinto Lewis, il Mondiale 2020 non è stato neppure eccessivamente noioso. Cinque vincitori diversi (prima dell’ultima gara), tredici piloti sul podio sono cifre che rendono meno monotono il dominio di  Hamilton e della sua Freccia Nera. Il pilota inglese ha conquistato il suo settimo titolo iridato con 11 vittorie e 10 pole position, è diventato campione quando c’erano ancora tre gare da fare. In fin dei conti che avrebbe vinto lui lo avevamo intuito ancora prima che il Mondiale si mettesse in moto a luglio in Austria, nonostante quella prima gara l’avesse vinta il suo compagno di squadra Bottas, poi rivelatosi una volta di più il migliore dei maggiordomi possibili, un po’ come accadeva con Irvine e Barrichello ai tempi di Schumacher.

 

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Hamilton ha aggiunto ancora qualcosa alla sua grandezza. È arrivato a 95 vittorie e 98 pole. Soltanto il Covid è riuscito a fermarlo, anche se per una gara soltanto, permettendogli comunque di battere anche il record di recupero: 10 giorni di isolamento ed eccolo pronto a riprendersi la Mercedes ad Abu Dhabi, certe voci è meglio tagliarle sul nascere. Il virus maledetto aveva dato fiato ai suoi detrattori dopo la grande prestazione del supplente,  baby George Russell. “Visto che con la Mercedes può vincere chiunque”, hanno gridato nonostante il pasticcio ai box avesse fermato il ragazzino lanciato verso la gloria. A questo proposito ci sarebbero due considerazioni da fare: 1) George Russell non è chiunque. È uno dei ragazzi dal futuro assicurato come Verstappen, Leclerc e probabilmente Norris. Uno che rifila 15-0 in qualifica al suo compagno non è chiunque; 2) sarà anche vero che guidando una Mercedes l’80 per cento dei piloti sulla griglia potrebbe vincere una gara, ma non sappiamo quanti di questi potrebbero battere Hamilton a parità di auto. La forza di Hamilton sta nella continuità dei suoi risultati. È campione del mondo dal 29 ottobre 2017… Da quattro anni il suo compagno di squadra riesce a batterlo una, due al massimo quattro volte a stagione. Senza contare quanto sia diventato una guida tecnica per il team, come siano importanti le sue indicazioni per lo sviluppo dell’auto. Certo, il sogno di tutti (tranne che di Lewis, probabilmente) sarebbe di vedere Russell accanto a lui sulla Mercedes fin dalla prossima stagione. Aggiungerebbe sale al piatto. Metterebbe un po’ di wasabi nella salsa di soia. E certamente sarebbe meno accondiscendente del morbido Bottas.

 

Il 2020 senza pubblico in tribuna, tranne che in rare eccezioni (clamoroso e preoccupante quanto visto in Russia o in Portogallo), ha riportato in pista il fuoco e la paura. Ma Grosjean, con le sue mani ustionate sotto le fasciature, è diventato il miglior spot per la sicurezza. La Formula 1 non si è fermata e l’Halo, quell’orribile infradito sopra l’abitacolo, è diventato un nuovo salvavita, come la cellula di sopravvivenza che avvolge i piloti. Il progresso qui lo tocchi con mano. Ma quelle fiamme devono essere viste come un campanello d’allarme. Mai fermarsi.  Il salto di Grosjean fuori dal fuoco, oltre a farlo passare per superman nei pensieri dei suoi bambini, è l’immagine di questo 2020. Una Formula 1 che fugge dal pericolo, una Formula 1 che, primo sport mondiale a ripartire a luglio, è riuscita a scappare dal Covid rimettendoci gli incassi, ma guadagnando in credibilità. Un altro anno senza pubblico, senza entrate, sarebbe difficile da sopportare. Per ora prevale l’ottimismo di un calendario con 23 tappe, il più ricco di sempre, dall’Australia ad Abu Dhabi, da marzo a dicembre. Un calendario che vuole dire soprattutto avere  fiducia nel vaccino. Quasi un messaggio per tutti.  Male che vada si ripartirà chiusi nella bolla che in questo 2020 è riuscita a contenere i contagi più che in tanti altri sport. Si seguirà il vecchio calendario, abbandonando le belle scoperte (Portimao, il Mugello) o le dolci riscoperte (Imola, il Nurburgring), ma dal primo gennaio a capo di Liberty Media ci sarà Stefano Domenicali, un manager cresciuto in pista, diventato uomo con la Formula 1: se c’è una persona che può restituire sapori e atmosfere senza trascurare il progresso questo è lui.

 

La Formula 1 è in buone mani. Quello che si chiedono i tifosi dopo un 2020 traballante è se la Ferrari è in buone mani. Se guardiamo chi quelle mani le ha sul volante la risposta è una soltanto: certamente. Charles Leclerc sta continuando il suo percorso di crescita, sbaglia ancora, qualche volta si lascia trascinare dalla voglia di strafare, ma in un anno sportivamente disperato, ha acceso la luce della speranza. Le uniche cose buone della Ferrari le ha fatte vedere lui. Dategli una macchina vincente. Serve solo questo. L’anno prossimo non avrà più accanto un quattro volte campione del mondo, ma un ragazzo che non ha ancora vinto in Formula 1: Carlos Sainz. Un figlio di papà (rallysta) che in McLaren ha dimostrato di saper giocare di squadra, di saper essere concreto. Una coppia giovane, la più giovane vista a Maranello dal 1968, la prima senza un campione del mondo dal 2007. Sainz ci arriverà con 118 gare alle spalle, quasi il doppio di Charles. Sulla carta non partirà come seconda guida, anche se è chiaro su chi punti la Ferrari (però anche quest’anno la McLaren puntava su Norris e alla fine Sainz ha fatto meglio).  La risposta alla domanda iniziale, se la Ferrari sia in buone mani è quindi affermativa se parliamo di piloti, ma diventa dubitativa quando si parla del resto. Manca la controprova che sia quella giusta la linea scelta da Mattia Binotto con la benedizione del presidente-assente John Elkann e di Louis Camilleri, l’amministratore delegato che l’altro giorno ha lasciato l’incarico per motivi di salute. Il 2020 della Ferrari è stato imbarazzante, alla fine si è scoperto che pure da ferma la SF1000 aveva dei problemi rallentando i meccanici ai pit stop. Dagli inizi degli anni Ottanta non finiva così indietro nel Mondiale costruttori, dal Duemila a oggi solo in sei stagioni non è riuscita a vincere neppure una gara. La Ferrari vola in Borsa, ma scivola in pista. La proprietà crede ancora in Binotto e nella sua linea. L’Harry Potter di Maranello ha ancora la piena fiducia. Meritata? Ce lo dovranno dire i risultati, l’unico metro di giudizio valido nello sport. La persona è valida, umanamente e professionalmente, ma la struttura andrebbe rinforzata. Il 2021 sarà ancora un anno di transizione con le regole congelate (con il benestare della Ferrari),  impossibile aspettarsi una rivoluzione, ma come minimo le Rosse dovranno tornare a frequentare il podio con regolarità, altrimenti la preoccupazione supererà la fiducia e qualcosa dovrà inevitabilmente cambiare. Dopo sei anni e 118 gare con la Ferrari, Sebastian Vettel si congederà da Maranello. Licenziato ancora prima dell’inizio della stagione, ha retto fino in fondo da separato in casa. Chiude con 14 vittorie, il terzo di ogni epoca ferrarista dopo Schumacher e Lauda, ma senza conquistare quel titolo per cui era stato ingaggiato. Ha fallito, ma non lascia un brutto ricordo. Fino al Gran premio di Germania 2018 era in testa al campionato. Poi è morto Marchionne e Seb è improvvisamente scomparso, quasi che il presidente fosse la sua benzina, la sua anima. Ripartirà dalla Aston Martin che è poi la Racing Point di questa stagione. Un motore Mercedes, il figlio del padrone come compagno di squadra. Ha avuto coraggio a ricominciare, gliene va dato atto.

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Ma il 2021 sarà anche l’anno dei grandi ritorni, con il giovane Mick, campione di F2, che riporterà in pista il nome Schumacher, e   il figliol prodigo Fernando Alonso con la Renault che diventerà Alpine e si colorerà di blu. Lo spagnolo ha già fatto litigare tutti: quando la Fia ha concesso alla sua nuova (che poi era anche la vecchia) squadra di schierarlo ai test giovani di Abu Dhabi, il resto del paddock è insorto. A ragione. Perché se si dà l’autorizzazione a Fernando, va data anche a Sainz che voleva provare la sua nuova casa Rossa o a Vettel che avrebbe provato la Mercedes Rosa. Sarà un caso, ma Fernando riesce sempre a far arrabbiare qualcuno. Forse già lo temono. La verità è che uno sport come questo, con i piloti che rischiano a vita, non può prevedere solo tre giorni di allenamento pre stagionali. Non ha senso.

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