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Il corpo di Paolo Rossi

Furio Zara

Era speciale, ma indistinguibile. Uno fra tanti, uno come tanti. Le sue ginocchia erano una mappa del dolore. Erano cavalieri, i calciatori dell'epoca. Oggi sono diventati gladiatori, hanno perso la levità, caratteristica del goleador del Mondiale 1982

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Il corpo di Paolo Rossi era un corpo di passaggio, dall'Italia in bianco e nero a quella a colori, dagli anni Settanta agli Ottanta, dal pane duro con cui era cresciuto a Prato - figlio di un impiegato statale e di una casalinga che arrotondava facendo la sarta - alle brioches, dalla vita vera a quella del Mulino Bianco. Nell’estate eterna del Mondiale 1982, Paolo Rossi pesava 66 kg., stesi ad asciugare su 174 centimetri di altezza. Era speciale, ma indistinguibile. Uno fra tanti, uno come tanti. Ossuto, quasi emaciato, di una magrezza pallida, con le braccine secche e le ginocchia fragili. Prima di appartenere a se stesso, quello di Paolo Rossi è un corpo che riassume i nostri piccoli grandi difetti. E’ Paolo Rossi, certo. Ma è anche moltitudine, folla, popolo, Italia che sta uscendo dagli Anni di Piombo ed ha scoperto che c’è vita oltre il secondo canale della tivù.

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Il corpo di Paolo Rossi era un corpo di passaggio, dall'Italia in bianco e nero a quella a colori, dagli anni Settanta agli Ottanta, dal pane duro con cui era cresciuto a Prato - figlio di un impiegato statale e di una casalinga che arrotondava facendo la sarta - alle brioches, dalla vita vera a quella del Mulino Bianco. Nell’estate eterna del Mondiale 1982, Paolo Rossi pesava 66 kg., stesi ad asciugare su 174 centimetri di altezza. Era speciale, ma indistinguibile. Uno fra tanti, uno come tanti. Ossuto, quasi emaciato, di una magrezza pallida, con le braccine secche e le ginocchia fragili. Prima di appartenere a se stesso, quello di Paolo Rossi è un corpo che riassume i nostri piccoli grandi difetti. E’ Paolo Rossi, certo. Ma è anche moltitudine, folla, popolo, Italia che sta uscendo dagli Anni di Piombo ed ha scoperto che c’è vita oltre il secondo canale della tivù.

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Quello di Paolo Rossi è il corpo di tutti. Uno, nessuno, centomila Paolo Rossi. L’infanzia dignitosa gli ha ritagliato una figura dai contorni esili, come lo si era un po’ tutti all’epoca. Era uno di "noi", quando dire "noi" significava ancora qualcosa. A diciott’anni gli avevano già asportato tre menischi, prima di arrivare ai trenta aveva già finito la carriera. Le sue ginocchia erano una mappa del dolore. Se fosse stato di moda all'epoca, avremmo parlato di un corpo resiliente. Ne è uscito un corpo nervoso e guizzante, appesantito appena solo da un'ombra di malinconia. Un corpo che in un'altra vita - la nostra - potremmo catalogare un po’ ovunque, ragioniere o impiegato, studente o elettricista; ma che trova la sua ragione di esistere nel perimetro di un campo da calcio, anzi, di più, nel perimetro ancora più inclusivo dell'area di rigore, il territorio di caccia dove Paolo Rossi si è guadagnato la gloria eterna e la riconoscenza di un’intera generazione. Quando segna, Paolo ha l'abbrivio di una lucertola che esce da una fessura. E’ da quella fessura che guarda la partita, ne ascolta il battito e ne intravede una via d'uscita. Paolo Rossi segna indovinando pertugi nella giungla di gambe avversarie e ostili. E’ facile riconoscersi in lui, lo fa ogni bambino cresciuto con dentro al cuore il Mondiale dell'82. Nei riflessi di ogni suo movimento, c’è il bagliore di una promessa che sta per avverarsi.

 

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E’ un corpo - quello di Pablito - che ci ha fato sentire orgogliosi. Non avevamo - in quell’estate lontana - i corpi sinuosi dei ballerini brasiliani e nemmeno quelli - tosti e feroci - dei tedeschi. Avevamo un corpo da italiani e "lo sguardo dell'animale in fuga", come cantava De Gregori; un corpo resistente a tutto, capace di trovare dentro di sé una forza serena, che a lungo se ne è stata acquattata nell'ombra, un po’ per indole e un po’ per pigrizia.

 

Non era nemmeno, quello di Rossi, un corpo che si era inchinato alla dittatura della bellezza che - da qualche anno a questa parte - ha preso in ostaggio tutta la categoria dei calciatori. Non c’era - in quell'epoca - nessuna identità social-televisiva da ribadire, tra un selfie e un altro. Quello di Paolo era un corpo esente da qualsiasi lampo di vanità, il corpo di un adolescente diventato uomo, suo malgrado. I nostri eroi della domenica in quegli anni non scendevano in campo come se avessero dovuto sfilare su una passerella di moda, tutt’altro. Si era invece naturalmente arruffati, sudaticci, persino imbruttiti dal furore agonistico. In questi quarant’anni il calciatore è passato da Clark Kent, uno fra tanti, a Superman, un supereroe. Il centravanti simbolo di oggi - Zlatan Ibrahimovic - pesa 84 kg. ed è alto 192 centimetri, 18 chili e 18 centimetri in più di Paolo Rossi. Oggi il corpo del calciatore è diventato uno strumento, un Expo ambulante di tatuaggi, un modo - per ribadire ancora una volta - la diversità tra noi e loro. La levità è stata sostituita dal trionfo dei bicipiti. La leggerezza è sparita, evaporata in una nuvola di "sportellate", per usare la più bolsa delle immagini che ci regalano telecronisti pigri. Erano cavalieri, i calciatori dell'epoca. Sono diventati gladiatori. Riguardando le vecchie immagini di quegli anni, si ha come l'impressione che il corpo di Pablito - smunto, secco, avvolto in un lucore indefinito - vada in dissolvenza, come i film di una volta. Nel salutarlo oggi, siamo qui a ringraziare Paolo Rossi, perché il suo corpo ha custodito un tempo asciutto e felice che abbiamo abitato, ospiti temporanei di una giovinezza che era davvero di tutti.

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