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Il centenario di Fiorenzo Magni, il terzo uomo che divenne Leone delle Fiandre

Gino Cervi

Se Coppi era un enigmatico esistenzialista e Bartali un irruente savonarola, il toscano era titanico. I cent'anni di un corridore mai domo

Cent’anni fa, il 10 dicembre 1920, nasceva a Vaiano, allora frazione di Prato, Fiorenzo Magni. È stato uno dei più forti corridori dell’epoca d’oro del ciclismo italiano. Se non avesse avuto la sventura vivere la stessa stagione con due mitologie a pedali come Fausto Coppi e Gino Bartali, sarebbe stato il più forte. Fu soprannominato “il Terzo Uomo”, titolo di un film americano di successo del 1949, con la strepitosa interpretazione di Orson Welles. In realtà Fiorenzo Magni fu il terzo incomodo e s’inserì nell’eterna contesa di quei due litiganti, godendo spesso. Il numero 3 gli si addiceva: vinse 3 Giri d’Italia (1948, 1951 e 1955), 3 Giri delle Fiandre consecutivi (1949-51, guadagnandosi l’altro soprannome di “Leone delle Fiandre”), 3 campionati italiani su strada (1951, 1953 e 1954), 3 Giri del Piemonte (1942, 1953 e 1956) e 3 Trofei Baracchi a cronometro a coppie (1949-51). Un palmarès completato dalle 6 tappe e i 24 giorni di maglia rosa al Giro (sempre multipli di 3), e molti altri successi e piazzamenti.

 

Lo smacco più cocente fu il ritiro dal Tour del 1950: nella frazione pirenaica da Pau a Saint-Gaudens, Bartali vinse la tappa e Magni conquistò la maglia gialla. L’indomani, nella tappa che prevedeva l’ascesa al Tourmalet, si scatenò il finimondo: i tifosi francesi aggredirono Bartali. All’arrivo, in segno di protesta, il commissario tecnico Alfredo Binda, messo alle strette dallo stesso Bartali, ritirò la squadra nazionale: a Magni non restò che ripiegare la maglia gialla e infilarla in valigia. Anni dopo disse in un’intervista “Bartali ha sbagliato. […] Comunque sono storie passate, guardiamo avanti”. 

 

Fiorenzo Magni ha sempre guardato avanti. Fin dal suo primo Giro d’Italia, nel 1948. Questa volta a ritirarsi e a spianargli la strada per la vittoria furono gli avversari. Negli ultimi giorni di corsa lottava testa a testa con Ezio Cecchi. Coppi, attardato in classifica, si scatenò nelle tappe dolomitiche, recuperando terreno. Nella penultima tappa, la Cortina d’Ampezzo-Trento, Coppi vinse in solitaria, Cecchi crollò, ma Magni contenne il distacco, conquistando maglia rosa, con 7’’ su Cecchi e 1’20’’ su Coppi. La Bianchi fece reclamo alla giuria: sulle rampe del Pordoi Magni era stato aiutato da un’organizzata sessione di spinte. A Magni venne inflitta una penalizzazione di 2’: Coppi e alla Bianchi la ritennero una sanzione irrisoria e si ritirarono per protesta. Due giorni dopo, il 6 giugno, all’arrivo di Milano, al Vigorelli, Magni fu accolto dai fischi. Secondo alcuni erano i tifosi di Coppi, accorsi in massa per protestare; secondo altri, erano i milanesi che non dimenticavano il recente passato di Fiorenzo.

 

Era infatti successo che, nell’autunno del 1943, dopo l’armistizio, Magni, ventiduenne aveva scelto di arruolarsi nella milizia fascista della Repubblica di Salò. L’accusa più grave, a guerra finita, fu quella di aver preso parte la cosiddetta strage di Valibona, località sui monti di Prato, nel giugno del 1944, quando la milizia fascista, fiancheggiata dai carabinieri, assaltò un casolare in cui era rifugiata una brigata partigiana. Nello scontro a fuoco e nell’incendio del fienile caddero molti “ribelli” e anche qualche fascista: venne ucciso il capo della brigata partigiana, Lanciotto Ballerini, figura carismatica della Resistenza toscana. Dopo quei fatti, e altri che li anticiparono e seguirono, Magni lasciò, o dovette lasciare Prato. Sui fatti di Valibona nel gennaio del 1947 si aprì un processo a Firenze. Insieme ad altri, Magni era imputato, in contumacia. Vennero chiamati molti a testimoniare e tra questi Alfredo Martini, amico di Magni, ma che era stato partigiano. Molti sostennero che la testimonianza di Martini – che agli atti dichiarò “Il Magni che è corridore ciclista fino al 25 luglio 1943 mi è parso un’ottima persona” - scagionò l’amico. In realtà non c’erano davvero prove della presenza di Magni a Valibona: lui stesso sostenne sempre di “non aver mai sparato un colpo di fucile” durante la sua militanza repubblichina. Assolto, anche grazie all’amnistia Togliatti, Magni tornò alle corse e, con successo, alla sua veemente carriera agonistica. Preferì però restare lontano dai luoghi natali. A Monza, dove fece famiglia e, terminata la carriera, avviò una florida attività commerciale nell’ambito delle automobili, visse fino al 2012, stimato e onorato come un grande vecchio della memoria sportiva nazionale. Pochi anni prima inaugurò, investendo di tasca proprio, il bellissimo Museo del Ciclismo al Ghisallo. 

 

Se Coppi era un enigmatico esistenzialista e Bartali un irruente savonarola, Magni era titanico. Le sue vittorie arrembanti, la sua tenacia mai doma, ma anche i chiaroscuri degli anni di guerra e del processo (analizzati accuratamente in un libro di Walter Bernardi, Il “caso” Fiorenzo Magni (Ediciclo, 2018) ne fanno un simbolo ancora attuale di un paese nato sulle ceneri di una guerra civile e per questo ancora oggi incapace, o impossibilitato, di rielaborare una memoria condivisa e pacificatoria.

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