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Così Torino e Juventus riuscirono a far superare alla città la violenza del ’77  

Piero Vietti

In un documentario i mesi eccezionali e terribili di un anno in cui il capoluogo piemontese dominava la Serie A e le Brigate Rosse sporcavano di sangue le sue strade

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Furono mesi eccezionali e terribili, scanditi dal conflitto negli stabilimenti di Mirafiori, e dal duello al Comunale, come si chiamava allora lo stadio. Due squadre per due lunghi anni condensarono la lotta scudetto in pochi metri. Nel ’76 vinse il Toro, nel ’77 toccò alla Juve, in fondo a un torneo meraviglioso per emozioni e deciso soltanto all’ultima giornata.
  
Come sembrano lontani, per un tifoso del Torino, gli anni Settanta. È vero, quello giocato all’epoca era un altro calcio, una Serie A in cui già allora dominava la Juventus, ma c’era gloria anche per molti altri. Fiorentina a fine Sessanta, e poi Cagliari, Inter, Lazio, Torino e Milan contendevano alla Vecchia Signora lo scudetto, talvolta vincendolo. C’è un anno in particolare di quel decennio che più di altri ha segnato la storia del campionato e dell’Italia. C’è un anno e c’è una città: il 1977 e Torino. Li racconta bene il documentario “Storie di Matteo Marani, 1977-Torino di piombo”, in onda in questi giorni su Sky Sport. Con ritmo da inchiesta Marani racconta un anno esaltante per il calcio torinese intrecciandolo ai giorni tremendi del terrorismo e dei disordini nelle fabbriche, con interviste a chi quegli anni li ha vissuti e documenti esclusivi (tra cui, curiosità, la lettera di qualche anno prima in cui Boniperti chiede ai giocatori della Juve che per “evitare rimproveri e malcontenti, precisiamo che non tolleriamo capelli lunghi, per cui sarà opportuno che provveda a presentarsi con una capigliatura adatta a un atleta”). 

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Furono mesi eccezionali e terribili, scanditi dal conflitto negli stabilimenti di Mirafiori, e dal duello al Comunale, come si chiamava allora lo stadio. Due squadre per due lunghi anni condensarono la lotta scudetto in pochi metri. Nel ’76 vinse il Toro, nel ’77 toccò alla Juve, in fondo a un torneo meraviglioso per emozioni e deciso soltanto all’ultima giornata.
  
Come sembrano lontani, per un tifoso del Torino, gli anni Settanta. È vero, quello giocato all’epoca era un altro calcio, una Serie A in cui già allora dominava la Juventus, ma c’era gloria anche per molti altri. Fiorentina a fine Sessanta, e poi Cagliari, Inter, Lazio, Torino e Milan contendevano alla Vecchia Signora lo scudetto, talvolta vincendolo. C’è un anno in particolare di quel decennio che più di altri ha segnato la storia del campionato e dell’Italia. C’è un anno e c’è una città: il 1977 e Torino. Li racconta bene il documentario “Storie di Matteo Marani, 1977-Torino di piombo”, in onda in questi giorni su Sky Sport. Con ritmo da inchiesta Marani racconta un anno esaltante per il calcio torinese intrecciandolo ai giorni tremendi del terrorismo e dei disordini nelle fabbriche, con interviste a chi quegli anni li ha vissuti e documenti esclusivi (tra cui, curiosità, la lettera di qualche anno prima in cui Boniperti chiede ai giocatori della Juve che per “evitare rimproveri e malcontenti, precisiamo che non tolleriamo capelli lunghi, per cui sarà opportuno che provveda a presentarsi con una capigliatura adatta a un atleta”). 

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Il Torino campione d’Italia nel 1976 prova a fare il bis sfidando la prima Juve di Giovanni Trapattoni in un testa a testa da record, vinto all’ultima giornata dai bianconeri con 51 punti, solo uno in più dei granata. Il 1977 è però anche un anno drammatico per la città. “Il calcio guarda a Torino per un duello che assorbe tutto – dice il documentario  – ma anche il resto del paese osserva la città piemontese con l’angoscia provata di fronte al terrorismo”. C’è il processo alle Brigate Rosse, i tanti omicidi, le tensioni tra Fiat, operai e sindacati. Sono gli anni che cambiano Torino e l’Italia, gli ultimi (se si eccettua il breve periodo di inizio Novanta) di una squadra granata costruita per vincere. I gol di Pulici e Boninsegna si alternano alle immagini del processo a Renato Curcio, i cross di Sala e Causio ai morti ammazzati per strada, alle minacce a industriali, sindacalisti e giornalisti. “Sono contento di essere riuscito a ricostruire il clima di quell’anno”, dice al Foglio Sportivo Marani, che oltre a essere giornalista ha una passione per la storia, frutto dei suoi studi umanistici. “Mi piace incrociare i miei due campi di interesse, lo sport e la  storia contemporanea. Il calcio spesso aiuta a raccontare la società, dato che si intreccia alla storia”. Un documentario  frutto di mesi di ricerche e grande capacità di sintesi. “Di Torino mi colpisce il suo essere città europea, piena di bellezza e classe, ma anche   ricca di forti contrasti: è alta e bassa, elegante e selvaggia, operaia e letteraria. Ha una storia aristocratica ma un aspetto industriale, il ferro e l’acciaio stanno accanto al salotto buono”. Soprattutto in quegli anni, poi. Industria a Torino vuol dire Fiat, e Fiat nel calcio vuol dire Juventus. Molto torinese all’epoca, e tifata dagli operai che dal sud erano venuti a lavorare in fabbrica, sempre più internazionale oggi, spiega Marani. “Da quando è di proprietà della Fiat  la Juventus ha sempre innovato, di fatto il professionismo nel calcio in Italia lo hanno portato loro, e i destini di azienda e squadra sono sempre stati legati: dagli anni dei conflitti sociali, con gli operai che iniziano a tifare per la squadra del ‘padrone’ fino a oggi che Fca guarda all’internazionalizzazione e quella bianconera è la prima squadra italiana veramente internazionale”. Non è così diversa dal 1977, la Juve di oggi, “riflette il pensiero e lo sguardo della proprietà. Ma questa è una cosa che succede sempre, basti pensare al Milan di Berlusconi, all’Inter di Moratti, alla squadra efficiente ma dal volto umano che è il Sassuolo che fu di Squinzi, o a quanto lo spirito dell’Atalanta sia lo stesso di Percassi”. Chi è cambiato da quel 1977 è proprio il Torino. In quegli anni vinceva quasi sempre i derby, situazione ormai stabilmente ribaltata da almeno due decenni (e oggi alle 18 allo Stadium c’è proprio Juventus-Torino). All’epoca la stracittadina era la partita più sentita da entrambe le squadre, oggi i bianconeri la vedono come una sfida delle tante, e i granata la temono. “Ho stima dell’Urbano Cairo imprenditore – prosegue Marani – Lo reputo l’ultimo vero grande editore italiano, per molti versi ricorda Rusconi. Sul calcio però è stato emotivo, non è riuscito a fare quello che ha fatto nelle sue aziende. Ha subìto il calcio, la piazza, certe pressioni, non è riuscito a essere freddo, ha fatto errori, si è fatto condizionare”. Si diceva all’inizio però che il confronto con gli anni Settanta e il Torino di Orfeo Pianelli è impietoso, non certo soltanto per colpa di Cairo. “Ovvio, in quegli anni vincevano anche altre squadre, non solo le ‘grandi’. Oggi i fatturati sono sproporzionati. La stessa Atalanta ha un fatturato molto più grande di quello del Torino, eppure non riesce a vincere. Nel 1990 questa Dea avrebbe vinto lo scudetto, per fare un esempio”. Oggi è praticamente impossibile. “Si gioca su 38 partite invece che su 30, è più difficile reggere con una rosa meno attrezzata. Gli introiti della Champions League poi fanno la vera differenza tra le squadre, incolmabile. Per questo oggi è quasi scontato che i derby li vinca la Juve. Certo mi piacerebbe oggi vedere un Toro che tira fuori l’antico spirito, che prova a giocarsela”. Dal documentario emergono bene le due anime diverse di bianconeri e granata: la Juventus è più forte, più solida, più continua – vincerà anche la sua prima coppa Uefa quell’anno – sostenuta da milioni di tifosi, popolare (già allora Boniperti stabiliva il compenso di ogni giocatore per fare pubblicità). Il Torino sanguigno, ben organizzato ma più povero, e come sempre maledetto (nel 1977 muore anche Giorgio Ferrini, capitano storico e vice di Radice l’anno dello scudetto). “Per come è il calcio di questi anni anche giocare un buon derby non vuol dire riuscire a vincerlo. Il divario è troppo grande. E si capisce che subentri la rassegnazione”. 

 

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Nel documentario di Sky ci sono le voci e i volti di Ezio Mauro, che all’epoca seguiva le   Brigate Rosse da cronista, Simona Ventura, tifosa del Torino e ragazza a Torino in quegli anni bui, Antonio Cabrini, Sandro Veronesi, Eraldo Pecci e Paolo Pulici. È proprio il bomber granata a dire cose che oggi sarebbero considerate scorrette: “Boniperti mi aveva detto di toglierci dalla testa che avremmo rivinto lo scudetto”, “Le partite della Juve finivano sempre dieci minuti dopo le nostre, spesso con un rigore o un autogol negli ultimi istanti”). Frasi che rendono bene il senso di uno scontro duro tra due squadre che rappresentavano due anime di una città ferita dal terrorismo ma orgogliosa della propria storia e del suo essere in vetta al campionato. “Il calcio – conclude il documentario di Marani – ha restituito alla Torino del ’77 la voglia di vivere nonostante la violenza, i morti ammazzati fuori e dentro le fabbriche, l’ideologia malata, la rabbia, le umiliazioni, il dolore. Un calcio domestico, vissuto a dimensione familiare, che restituiva anche all’Italia uno dei campionati più appassionanti di sempre, destinato alla memoria, arricchito dalle prodezze dei calciatori italiani e da un duello scritto nella pietra”. 

 

“Nel 1977 Torino era al centro d’Italia – conclude Marani – Oggi non è più così ‘forte’. Ha tanti punti dalla sua: è europea e ha ancora un importante ruolo culturale.  Forse soffre la concorrenza con Milano, si misura troppo con lei, mentre  ha un’altra dimensione, un’altra identità. La Juve è sempre più importante per la città: dà visibilità, porta turisti”. Dall’anno prossimo ci saranno le Atp Finals di tennis. “Su questo è stato fatto un buon lavoro. E credo che  lo sport dei gesti bianchi possa esaltarsi a Torino. Se c’è un luogo adatto per il tennis è proprio quello”. Intanto, oggi c’è il derby.

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