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Il colpo da Dio di Maradona è stato un assist

Sandro Bonvissuto

Ricordi di un viaggio in aereo e di quel cross impossibile, che sfidava ogni regola della Fisica

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Mi ricordo che quando ero piccolo, abbastanza piccolo, dovetti prendere un aereo per andare a trovare un’amichetta mia e la sua famiglia, che si era improvvisamente dovuta trasferire all’estero con tutti i parenti; abitava nel nostro palazzo e ci volevamo tutti bene, c’erano per questo di mezzo anche altre cose, delle quali vi risparmio il racconto. Non era affatto consueto prendere aerei per quelli come noi. E io infatti non l’avevo mai preso un aereo vero. All’aeroporto vidi tante cose incredibili, prima fra tutte la hostess che mi accompagnava e che chiamai per tutto il tempo “signorina”, come fosse il suo nome proprio di battesimo. Che si trattava di una donna di una bellezza imperiale, manco ve lo devo dire. Ma la cosa che mi colpì più di tutte fu che fra i passeggeri del volo all’interno dell’aereo c’erano stranamente due piloti. In divisa. Li notai subito. Belli, alti. Tenevano il cappello da volatori sulle ginocchia. Avevano dei bagagli piccoli, erano affabili. Si vedeva che sapevano tutto, i nomi delle nuvole, o delle strade in cielo. Erano a loro agio per aria, come i vetturini delle carrozze coi cavalli nel centro di Roma. Io e la signorina ci sedemmo vicini, e lei mi disse che avrei potuto chiedere a lei per qualunque problema. A me non mi parve vero, così la chiamai subito col braccio e le chiesi: “Scusi signorina, ma se i piloti stanno seduti là, l’aereo mo’ chi lo guida?”. Lei rise, poi lo disse anche ai piloti seduti. E risero pure loro. Insomma risero tutti, anche se non c’era niente da ridere.

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Mi ricordo che quando ero piccolo, abbastanza piccolo, dovetti prendere un aereo per andare a trovare un’amichetta mia e la sua famiglia, che si era improvvisamente dovuta trasferire all’estero con tutti i parenti; abitava nel nostro palazzo e ci volevamo tutti bene, c’erano per questo di mezzo anche altre cose, delle quali vi risparmio il racconto. Non era affatto consueto prendere aerei per quelli come noi. E io infatti non l’avevo mai preso un aereo vero. All’aeroporto vidi tante cose incredibili, prima fra tutte la hostess che mi accompagnava e che chiamai per tutto il tempo “signorina”, come fosse il suo nome proprio di battesimo. Che si trattava di una donna di una bellezza imperiale, manco ve lo devo dire. Ma la cosa che mi colpì più di tutte fu che fra i passeggeri del volo all’interno dell’aereo c’erano stranamente due piloti. In divisa. Li notai subito. Belli, alti. Tenevano il cappello da volatori sulle ginocchia. Avevano dei bagagli piccoli, erano affabili. Si vedeva che sapevano tutto, i nomi delle nuvole, o delle strade in cielo. Erano a loro agio per aria, come i vetturini delle carrozze coi cavalli nel centro di Roma. Io e la signorina ci sedemmo vicini, e lei mi disse che avrei potuto chiedere a lei per qualunque problema. A me non mi parve vero, così la chiamai subito col braccio e le chiesi: “Scusi signorina, ma se i piloti stanno seduti là, l’aereo mo’ chi lo guida?”. Lei rise, poi lo disse anche ai piloti seduti. E risero pure loro. Insomma risero tutti, anche se non c’era niente da ridere.

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Quando ho visto giocare Maradona per la prima volta fu in occasione di un incontro in casa qui a Roma che finì pari uno a uno. Fu una partita fantastica. Vedevo il nostro portiere Tancredi volare a sventare occasioni da gol per il Napoli. Ricordo due parate proprio su Maradona, una sul palo alla sinistra dell’estremo difensore, in basso. Quando tirò di destro. E un’altra su una punizione velenosa, che sarebbe finita proprio sotto l’incrocio. In occasione del loro gol Maradona fornì un assist a un compagno che si chiamava Bertoni, un pallone dato contro tutti i princìpi della Fisica. Proprio una cosa fatta al contrario di come si dovrebbe fare. Si era involato sulla destra e crossò in area ma di sinistro. Eppure il pallone prese una traiettoria a rientrare, come fosse stato colpito di destro, con l’interno del piede. Invece no, lui lo prese con l’esterno del sinistro, e il pallone si comportò come fosse stato colpito con l’interno del destro.

    

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Quando tornai a casa dallo stadio, era ancora un po’ inverno, e me ne andai nel cortile vuoto e freddo col pallone per tentare di rifare quel colpo, correndo. La prima volta riuscii a darmi un calcio da solo col piede sinistro sul malleolo del piede destro, nella speranza di fare il movimento corretto. Perché spostai prima una gamba verso l’altra, cercando di recuperare la spinta giusta dell’arto mancino, lungo un arco ortogonale alla corsa e quindi innaturale. Provai un dolore assurdo e ingiusto perché autoinferto. Autoinflitto. La seconda volta provai con le gambe più larghe rispetto a prima, un po’ divaricate, per tentare di mandare il pallone di là, col piede di quà. E stavolta invece mi feci male all’anca. Fu quello un dolore sordo e profondo. Cattivo. Interno. Minaccioso per il futuro della mia posizione eretta, guadagnata in millenni di evoluzione della specie. Lasciai perdere subito e tornai a casa mezzo invalido, che camminavo a fatica, e mio padre mi chiese contro chi avessi giocato che mi aveva ridotto a quel modo. E in pratica avevo giocato da solo, contro nessuno. E infatti risposi: nessuno. Come se l’avesse scritta Omero quella risposta. Ma in realtà avevo giocato contro qualcosa di molto più grande di me, di immenso.

 

Ogni volta che ho visto giocare Maradona ho pensato lo stesso, qualcosa di molto simile a ciò che mi era venuto in mente all’epoca del mio primo viaggio in aereo, osservando quei piloti seduti in mezzo ai passeggeri, e sarebbe a dire: ma se Dio adesso sta giocando a pallone in campo, il mondo, in questo momento, chi lo guida? E non c’è niente da ridere.

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