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El Pibe de oro, tra riccioli e fango

Maradona e la tentazione umana di nascondersi dalla grandezza

Gaia Manzini

In lui c’è sempre stato qualcosa d’improbabile: lo sguardo, quasi sempre triste, il fisico da bambino un po’ tozzo, i capelli da cantante o da attore. Maradona è qualcuno che fa qualcosa di perfetto, ma sembra farlo per caso. Che riesce a fare qualcosa di eccezionale anche perché inaspettato

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È una ripresa in bianco e nero, lo ritrae ancora prima di diventare una cebollita dell’Argentinos Juniors: la palla passa da un piede all’altro, da una gamba sottile – tutto fuorché atletica – all’altra; e da lì alla testa, alle spalle. Quella scena si ripete nel 1989 prima della partita tra il Napoli e il Bayern Monaco per la semifinale di Coppa Uefa: sulle note di “Live is life”, lui è lì, in campo, per scaldarsi. È un ballerino, un giocoliere con la palla in bilico sulla testa, mentre ruota il bacino e poi la fa passare sul petto. Lui è lì, narciso: sa che milioni di persone lo stanno guardando e conosce i tempi, le pause, le accelerazioni, come un consumato uomo di spettacolo che, persino con gli scarpini slacciati e i riccioli perfetti, con la palla può fare tutto ciò che vuole: bucare il cielo come la porta avversaria.

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È una ripresa in bianco e nero, lo ritrae ancora prima di diventare una cebollita dell’Argentinos Juniors: la palla passa da un piede all’altro, da una gamba sottile – tutto fuorché atletica – all’altra; e da lì alla testa, alle spalle. Quella scena si ripete nel 1989 prima della partita tra il Napoli e il Bayern Monaco per la semifinale di Coppa Uefa: sulle note di “Live is life”, lui è lì, in campo, per scaldarsi. È un ballerino, un giocoliere con la palla in bilico sulla testa, mentre ruota il bacino e poi la fa passare sul petto. Lui è lì, narciso: sa che milioni di persone lo stanno guardando e conosce i tempi, le pause, le accelerazioni, come un consumato uomo di spettacolo che, persino con gli scarpini slacciati e i riccioli perfetti, con la palla può fare tutto ciò che vuole: bucare il cielo come la porta avversaria.

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E ancora: la mano de Dios ai quarti di finale dei Mondiali 1986 contro l’Inghilterra e l’altro gol, il secondo, che anche a me che di calcio capisco pochissimo sembra strabiliante. Quello che vedo non è neanche un calciatore, ma una forza inarrestabile che scansa ogni ostacolo e va dove deve con tutta la furia del mondo. Ma anche con tutta la naturalezza. Maradona è morto il 25 novembre a casa sua, era in convalescenza dopo un’operazione al cervello; aveva solo sessant’anni. In televisione, ma anche in chat, tra amici, si riguardano i video delle sue prodezze calcistiche; se ne parla, si commenta. Ciò che vediamo è qualcosa che tutti possono capire: non c’è niente di più eloquente del talento.

 

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Il talento di un certo tipo – il talento del Pibe de oro – non importa da dove tu venga, se da una baracca di Villa Fiorito o da un palazzo principesco, è una lingua che parli solo tu, ma che le persone colgono al volo. E quando si capisce qualcosa, non ci si sente più soli, mai più sconfitti o inefficienti: quel dono diventa il dono di tutti. “Il genio non è riproducibile”, scriveva David Foster Wallace. “L’ispirazione però è contagiosa, e multiforme, e anche soltanto vedere, da vicino, la potenza e l’aggressività rese vulnerabili dalla bellezza significa sentirsi ispirati e (in un modo fugace, mortale) riconciliati”. Il genio è far sembrare facile qualcosa che facile non lo è. Rendere possibile ciò che è precluso alle persone normali. Ma, nel caso di Maradona, con un tocco in più.

 

Perché in lui c’è sempre stato qualcosa d’improbabile. Improbabile lo sguardo, quasi sempre triste (tranne in qualche famosa accensione ferina); improbabile il fisico da bambino un po’ tozzo, improbabili i capelli – soprattutto quelli – da cantante o da attore. Maradona è qualcuno che fa qualcosa di perfetto, ma sembra farlo per caso. Che riesce a fare qualcosa di eccezionale anche perché inaspettato. Come Abebe Bikila, così magro e consunto che nessuno avrebbe scommesso sulla sua resistenza per quarantadue chilometri percorsi a piedi scalzi, e invece vinse due Olimpiadi di seguito. Lo sport reclama i suoi dei dell’Olimpo, ma il mondo ama gli uomini, quelli venuti male, con qualcosa di storto e obliquo, imperfetto, che li fa uguali a noi.

 

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Non poteva che appartenere al sud, Dieguito: non poteva che giocare per il Napoli, con cui ha vinto lo scudetto nel 1987 e poi nel 1990. La città che lo ha amato e venerato e per cui è stato molto di più di un giocatore. Per me è sempre stato quella massa di capelli fittissimi sotto la quale nascondersi, e parare i colpi della notorietà. Capelli alla Jim Morrison, alla Jimi Hendrix, alla Janis Joplin, campioni maledetti anche loro che ci affascinano di più di quelli senza sbavature. “Ho sempre giocato per la gente”, diceva. Il ragazzo coi riccioli improbabili che sapeva incantare tutti. Ma poi succede, a volte, che il talento è tanto, è troppo; ormai è del mondo e il mondo lo reclama, perché dentro quel talento c’è la voglia di riscatto che alberga in ognuno di noi.

 

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Allora è inutile difendersi sotto un casco di capelli. Se quel talento non è più tuo, arriva il momento di darlo via. La tentazione, se sei grande, di cadere; se sei puro, di sporcarti. Nel film di Sorrentino “Youth”, Michael Caine sta parlando con un bambino in piscina. “Tutti i mancini sono degli irregolari – dice – quindi una posizione irregolare li aiuta”. Si avvicina in quel momento un uomo con un grande tatuaggio sulla schiena. È Maradona. Quasi irriconoscibile, gonfio, sovrappeso; sempre gli stessi riccioli, il ghigno guascone. Dice al bambino: “Pibe, anch’io sono mancino, sai?”.

 

Nel documentario che Emir Kusturica ha girato su di lui, Maradona si chiede che giocatore sarebbe stato senza cocaina: sarei stato molto più grande, molto di più, il mondo si è perso un giocatore impensabile. Sì, è così. Ma forse, in fondo, non lo voleva davvero. Forse c’è una parte in ognuno di noi, una parte umana che sfugge alla grandezza. Che ha bisogno di ritrovare il fango; di piangere come gli eroi dell’epica; o di scappare dentro un’altra vita come il pontefice di “Habemus papam”. Forse a Diego è solo mancata la capacità di immaginarsela un’altra vita sotto i suoi capelli.

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