PUBBLICITÁ

 L’eredità di Maradona è il suo ricordo

Roberto Perrone

Diego ha frantumato la chitarra della sua vita, ma ci ha lasciato le sue canzoni disegnate sul prato

PUBBLICITÁ

Di tutti i ricordi apparsi in questi giorni su giornali di carta, online, blog, ascoltati alla radio, visti alla televisione, postati su Instagram, su Twitter su Facebook, su qualsiasi social, l’aspetto più clamoroso è, appunto, il ricordo. Al di là di vizi e virtù, di colpi di genio, di testa, di mano, di sinistri all’incrocio con carezze di velluto, di sinistri, intesi come tipi, che lo hanno affiancato, sedotto, turlupinato, di donne che sono andate e venute, mai nessuna rimasta, di meraviglie calcistiche e prese di posizione da bolso commediante, di politici che lo hanno usato e che ha usato, di miliardi di uomini che ha divertito e che lo piangono, al di là di tutto questo, di Diego Armando Maradona, morto a neanche un mese dai suoi sessant’anni, abbiamo dei ricordi. Tantissimi i ricordi personali. Soprattutto i giornalisti che avevano l’età per stare sul campo, in prima linea dove avveniva il grande calcio che, a metà degli anni Ottanta, avveniva qui, in Italia. Tutti questi siamo noi, che c’eravamo quando sbarcò a Napoli a palleggiare dentro lo stadio che ora porterà il suo nome, poi, dopo, in giro per l’Italia. Tutti hanno postato una foto (da soli o in compagnia), scritto di un istante con lui, da soli o in compagnia. E lo stesso, in tanti, potrebbero fare di Michel Platini, di Zico, di Van Basten (autorizzo questi signori a compiere gesti scaramantici anche volgari), cioè dei grandi campioni di un epoca irripetibile. Per l’Italia di sicuro.

ABBONATI PER CONTINUARE A LEGGERE
Se hai già un abbonamento:

Altrimenti


Di tutti i ricordi apparsi in questi giorni su giornali di carta, online, blog, ascoltati alla radio, visti alla televisione, postati su Instagram, su Twitter su Facebook, su qualsiasi social, l’aspetto più clamoroso è, appunto, il ricordo. Al di là di vizi e virtù, di colpi di genio, di testa, di mano, di sinistri all’incrocio con carezze di velluto, di sinistri, intesi come tipi, che lo hanno affiancato, sedotto, turlupinato, di donne che sono andate e venute, mai nessuna rimasta, di meraviglie calcistiche e prese di posizione da bolso commediante, di politici che lo hanno usato e che ha usato, di miliardi di uomini che ha divertito e che lo piangono, al di là di tutto questo, di Diego Armando Maradona, morto a neanche un mese dai suoi sessant’anni, abbiamo dei ricordi. Tantissimi i ricordi personali. Soprattutto i giornalisti che avevano l’età per stare sul campo, in prima linea dove avveniva il grande calcio che, a metà degli anni Ottanta, avveniva qui, in Italia. Tutti questi siamo noi, che c’eravamo quando sbarcò a Napoli a palleggiare dentro lo stadio che ora porterà il suo nome, poi, dopo, in giro per l’Italia. Tutti hanno postato una foto (da soli o in compagnia), scritto di un istante con lui, da soli o in compagnia. E lo stesso, in tanti, potrebbero fare di Michel Platini, di Zico, di Van Basten (autorizzo questi signori a compiere gesti scaramantici anche volgari), cioè dei grandi campioni di un epoca irripetibile. Per l’Italia di sicuro.

PUBBLICITÁ

 

Di Diego e dei suoi fratelli, che ci facevano commuovere, arrabbiare, entusiasmare, saltare sui seggiolini dello stadio e sulla poltrona di casa, possiamo dire che erano raggiungibili, campioni immensi con il domicilio nella porta accanto alla nostra. Per anni, negli ambienti del giornalismo sportivo, si è tramandato il leggendario attacco di Gianfranco Civolani, uomo impagabile e collega fuori dagli schemi che ci ha lasciati un anno fa, prima di questo schifo di Covid. Cominciò un articolo così: “Ehi Civola! Mi volto. È Pelè”. Abbiamo riso in tanti, eppure, come aveva confermato Italo Cucci, la storia è andata proprio così, a quei tempi Pelè lo potevi conoscere anche perché il rapporto calciatori-giornalisti era di 1-2, non di più. Di questi giorni di ricordi dovete, specialmente voi più giovani, serbare memoria quando, tra qualche decennio, vi auguro molti, dovrete raccontare di Messi, di Ronaldo, cioè dei Maradona e Pelè del Terzo Millennio. Che ricordi avrete, quali foto “con” potreste postare? Questa è la scoperta di questi giorni. Maradona e i suoi fratelli sono stati degli idoli pop, li potevi vedere da vicino, toccare, raccontare.

  

PUBBLICITÁ

Tutti noi abbiamo un racconto personale del Pibe e dei suoi fratelli di genio tutti insieme appassionatamente in Serie A. Il mio risale al 1988.

 

Era ottobre e il Napoli giocava a Lipsia con il Lokomotive per i 16esimi di Coppa Uefa. C’è ancora, la Locomotiva, ma si aggira su un binario morto come quella di Guccini quando avvertirono la stazione di Bologna. Adesso la squadra di Lipsia si chiama Red Bull e fa parte di una multinazionale, porta il nome di una bibita energetica. Allora lo stadio era in parte di legno. Allora c’erano il Muro di Berlino, la Cortina di Ferro e un clima pesante, anche perché eravamo agli ultimi giorni dell’Impero (comunista), stava per arrivare la bufera che cambiò il mondo, almeno da un punto di vista geografico. Ma Diego neanche se ne accorgeva, per lui il mondo è sempre stato lo stesso posto, perché tutto ha ruotato sempre attorno a lui. Per Diego non c’era soluzione di continuità, non c’erano muri, perché lui faceva, ovunque, le stesse cose. Sia in campo che fuori. A Lipsia c’era un solo albergo moderno e funzionale, così, fatto inaudito, ci piazzarono tutti lì, squadra, tifosi (con i soldi per pagarsi un posto sul volo del club), giornalisti. Inaudito perché i giornalisti, le società di calcio nello stesso hotel non li vogliono. La sera della vigilia, in quattro o cinque, andammo a cena nella birreria preferita di Goethe: il poeta se ne veniva dall’università lungo un passaggio sotterraneo che sbucava nel retro del locale. Dopo cena, era quasi mezzanotte, tornammo in hotel e mentre noi entravamo, Diego usciva, diretto verso chissà quale destinazione/bagordo. Intorno a lui una specie di Rat Pack in cui il Pibe impersonava il ruolo di Frank Sinatra, come nel famoso clan di amici attori che formarono un’associazione per spasso/eccesso nella rutilante Las Vegas 1950-60. Dieguito, in queste compagnie, c’era sempre, gli altri cambiavano. E questo deve far comprendere la sua parabola, la sua fine, solo, malato, senza soldi, senza nessuno intorno, l’albero del pane ormai spogliato. In questo “branco di ratti” (testuale), in queste bande in cui era Diego-Frank cantava “My way”, gli altri cambiavano, ne abbiamo viste a frotte di cortigiani attorno a lui. Ma se Diego era Frank Sinatra, il centro di gravità, gli altri che lo attorniavano non erano Dean Martin, Sammy Davis Jr, Peter Lawford, Joey Bishop che avevano le loro storie, le loro carriere, brillavano da soli e guadagnavano i loro soldi. Non stavano lì come remore attaccate al pesce più grande. Non avevano niente da dargli, questi figuri, a Diego solo da prendere. E non avevano neanche niente da dirgli, purtroppo. Chissà, in questo caso (forse) la sua storia sarebbe stata diversa. 
Mi chiesi, vedendolo sparire nella notte, cosa avrebbe combinato l’indomani. Gli diedi 7: niente punizioni magiche o gol dribblando mezzo mondo, ma tra i migliori comunque. Partimmo dopo la partita. L’aereo che ci riportava a Napoli era un vetusto/angusto Tupolev della compagnia di bandiera della DDR, con le retine sopra i sedili, tanto per capire di che parliamo. Luciano Moggi, allora direttore sportivo del Napoli, è sempre stato fatalista. Se gli aerei devono cadere, cadono anche quelli belli e moderni, diceva. Così, anche in seguito, alla Juventus, affittava sempre charter sgrausi. Lo spazio era ridotto, io no. Per cui quando arrivarono i vassoi per la cena il mio tavolinetto scendeva di pochissimo. Rimasi con il vassoio tra le mani indeciso sul da farsi. In soccorso mi venne qualcuno che mi batteva sulla spalla. E come Civola, mi voltai: era Maradona che non penso conoscesse il mio nome anche se mi vedeva bazzicate il San Paolo e Soccavo. Diego sedeva nel posto sul corridoio alla stessa altezza del mio, dall’altra parte del corridoio. “Amigo, metti il vassoio qui, sul mio tavolinetto, io tanto non mangio”. E così in quella notte, traversando il cielo limpido di un’Europa autunnale cenai con il più grande giocatore del mondo che, di fatto, mi reggeva il vassoio.

 

Questo era Diego, qualcuno di cui serbare un ricordo personale anche se “amigos” non posso dire che lo fossimo. E pochi, dei milioni che hanno millantato la sua conoscenza in questi giorni, lo erano. Di lui tutti abbiamo preso qualcosa, in molti senza dare in cambio neanche questo debordante affetto planetario

PUBBLICITÁ

 

PUBBLICITÁ

Bisogna invece dare a Diego quello che è di Diego, onestamente. Era un tossico. Ma non solo di cocaina, di vita. Era avvolto dalla bramosia del vivere. Non gli bastava mai nulla, dalla droga ai dorados del Paranà, dove un’estate andò a pescare e scomparve tra i rivoli dell’immenso estuario. A Napoli lo aspettavano e di lui arrivavano notizie frammentarie, di cui l’unica certa era che se ne voleva andare. Lo corteggiava Bernard Tapie, il vulcanico e barricadiero come lui, presidente del Marsiglia. E come lui peccatore, in parole, opere e infinite omissioni. Marsiglia era un altro luogo perfetto per Maradona, al di là dei soldi. Un intrico di vicoli e delitti, di saliscendi e perversioni, di frutti di mare e brutti soggetti. Poi non andò.

 

PUBBLICITÁ

Diego ha messo insieme filibustieri dei bassifondi e intellettuali sopraffini. Napoli è una delle città più colte del mondo, patria del diritto e lui ha stregato giuristi e letterati che si unirono nel “Te Diegum”, club esclusivo e di alto lignaggio che aveva in comune con certi club privé della città oscura lo stesso amore viscerale e incondizionato per lui. In questa terra  di mezzo dove regna la passione, le leggi della morale e del diritto falliscono di fronte alla grandezza del gesto tecnico. Questo colpisce molte persone raziocinanti in questi giorni di lutto collettivo ed esaltazione feroce. Una mia cara e colta amica di origine napoletana mi raccontava che, di fronte alla fede, che non ammetteva contestazioni del padre per il Pibe, lei rimaneva, e rimane con i suoi dubbi: secondo lei il lato negativo del Pibe non può restare al di fuori del giudizio. Non si tratta di lasciare fuori o dentro, è semplicemente impossibile prendere Maradona da un lato o dall’altro. Non si può.

   

Con lui esiste solo il pacchetto completo, perché se cominciamo a mettere in riga vizi e virtù, cercando di trovare un equilibrio tra la forza e il lato oscuro di questa, non la finiamo più. Bisogna mescolare, non agitare, tenere tutto insieme. Le tirate di un uomo che ogni due parole pronunciava la parola “famiglia” con le scorribande dove non sempre c’era la droga, ma le donne non mancavano mai; l’appoggio ai satrapi sudamericani di ogni ordine e grado (passi Fidel, almeno ha la leggenda dalla sua, ma Chavez?), le magliette del Che, il bolivarismo, con i petrodollari, l’aereo privato e la villa messi a disposizione dagli emiri.  
Non si può. E non si può non volergli bene perché alla fine, Diego Armando Maradona ha fatto del male solo a se stesso. A tutti noi ha fatto solo del bene, perché dietro a tutto, resta il calciatore. Diego è stato come un mitico cantante rock. Se parlassimo di Elvis o di Jim Morrison, ci perderemmo dietro a una valutazione morale, chiedendoci che esempi sono stati, uno affogato nel burro di arachidi, l’altro sopraffatto da alcol e droghe? No, metteremmo sul piatto Jailhouse Rock e Light my fire e balleremmo. Diego alla fine ha frantumato la chitarra della sua vita, ma ci ha lasciato le sue canzoni disegnate sul prato. Ci ha lasciato il bene prezioso del ricordo. 

Di più su questi argomenti:
PUBBLICITÁ