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E il dio del calcio si fece carne

Maurizio Crippa

Ci voleva un vero peccatore per far risplendere la luce del gioco agli uomini

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Città come nessun’altra capace di liquefarsi nel sacro e di rinascere nell’abbraccio dei morti, e per questo di ridere con gusto, Napoli non si dimenticò, nel giorno del Miracolo, del primo scudetto, di farli partecipare, i suoi morti, allo scioglimento di tutti i voti. “E che ve site perso” è lo striscione che Napoli appese fuori dal cimitero di Poggioreale, e mai morte e vita, sacro e profano passarono meglio, in mistica comunione di tifoseria, quasi una santeria, dentro nel mistero del calcio. Perché il dio del calcio si era fatto uomo, aveva avuto la sua incarnazione. Ci perdoneranno i pietisti e i moralisti se diciamo questo, ma abbiamo di certo dalla nostra parte un Papa argentino.

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Città come nessun’altra capace di liquefarsi nel sacro e di rinascere nell’abbraccio dei morti, e per questo di ridere con gusto, Napoli non si dimenticò, nel giorno del Miracolo, del primo scudetto, di farli partecipare, i suoi morti, allo scioglimento di tutti i voti. “E che ve site perso” è lo striscione che Napoli appese fuori dal cimitero di Poggioreale, e mai morte e vita, sacro e profano passarono meglio, in mistica comunione di tifoseria, quasi una santeria, dentro nel mistero del calcio. Perché il dio del calcio si era fatto uomo, aveva avuto la sua incarnazione. Ci perdoneranno i pietisti e i moralisti se diciamo questo, ma abbiamo di certo dalla nostra parte un Papa argentino.

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È morto il Pibe de oro, la Mano de Dios, i due suoi più famosi soprannomi di sicura ascendenza divina, ma Diego Armando Maradona non era soltanto questo, una epifania di attributi riservati al Cielo o all’Olimpo, era un’incarnazione stessa del divino. E che lo fosse soltanto in quello specifico rettangolo della Creazione che è il calcio, non fa alcuna differenza. Il calcio come la più metafisica idea della vita, vincere e perdere, guerra e forza, gioia e maledizione, vivere e morire, sacrificio e gioia, si era concretizzato, umanizzato, tutto in un solo giocatore, in un solo numero 10, in un solo uomo. Ma in quest’uomo, in questo eterno bambino e irredimibile mascalzone, c’era anche tutta la fragilità, il male, la colpa, la slealtà, la ferocia che è propria degli esseri umani.

 

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Tutta, in quell’uomo che era Diego Maradona. Perché il dio di quel gioco che è pura arte imponderabile e pura felicità ha voluto incarnarsi nel suo contrario, e persino nel suo tradimento. Sarebbe stato troppo facile manifestarsi in Pelé, il Re, ancora oggi un signore per bene, per tutta la vita un ambasciatore laico dello sport come religione umanistica, diplomatica. Oppure in Cruijff, umano troppo umano, la secolarizzazione realizzata di un calcio che non doveva avere più magia e mistero, ma essere scienza e comunicazione e società. Ci voleva uno che, fuori dal campo, fosse più faticoso e contraddittorio amare. Giunse nella storia del calcio nel punto in cui volgeva al suo culmine, come il Puer Aureus, traduzione latina e augustea di Pibe de oro. Il calcio stava cambiando, correndo verso la sua età dell’oro, nel senso dei quattrini.

 

Lui che di quattrini ne ha avuti e sniffati e gettati e regalati a strafottere, ai poveri che incontrava e a ogni pezzo da galera, non apparteneva a quella nuova età. Era antico, o per meglio dire legato all’eternità del calcio. Venne, il Puer, come uno scandalo per i regolamenti e i contratti, per ricordare a tutti che il gioco era un’altra cosa, il calcio è un pallone e un bambino che non pensa ad altro, perché la pienezza dei tempi per lui è già lì. “Io sono la mia colpa e non posso rimediare”, disse al suo amico, folle quasi lui, Emir Kusturica. Perché sapeva che nella sua doppia natura di inviato del dio del calcio e di suo indegno testimone non c’era redenzione né rimedio. Eppure aveva più crocefissi e amuleti sacri di certi politici blasfemi di oggi, e prima di entrare al San Paolo salutava la Madonna di Positano, come si manda un bacio alla madre. Esiste anche una Iglesia Maradoniana, religione sincretica e demenziale fondata dai suoi fan più impresentabili, e lui lo sapeva, se ne beava, tollerava.

 

Kusturica gli chiese quale star del cinema avrebbe voluto diventare, rispose senza pensarci un attimo: “De Niro in Toro scatenato”, perché “volevo buttare giù tutto”. Ma che un giorno sarebbe venuta la redenzione, il perdono, l’ha sempre saputo e sognato, forse pregato. Per questo è stato un vero dio e un profeta per mascalzoni e derelitti, per dissipatori di ogni latitudine. Perché è più facile specchiarsi in uno così, che si è preso su di sé tutti gli autogol del mondo e della vita, ma questo non ha oscurato la luce divina che risplendeva unicamente nei piedi. È morto lo stesso giorno di George Best, perché un dio del calcio forse esiste davvero. Il San Paolo si è illuminato ieri sera, come San Pietro quando muore un Papa. Il vicario del dio del pallone. In terra.

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