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Il Pibe oltre il calcio

La filosofia di Maradona è nelle sue totally unnecessary magie

"Ho visto Maradona, ho visto Maradona: oh, mammà, innamorato son"

Antonio Gurrado

Essere sé stesso e il proprio opposto, alto e basso  senza distinzione, angelo diabolico e demone serafico. Gli scudetti con il Napoli, la sua immagine vissuta dalla città come un icona religiosa. Omaggio all'irripetibilità del campione argentino, vittorioso e triste

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Nel 2014 Antonio Gurrado ha pubblicato “Ho visto Maradona” (Ediciclo editore), un romanzetto in cui immagina le ambasce politiche e umane, prima ancora che calcistiche, di un adolescente che vive a Napoli ma è milanista (un po’ come il pasticcere trotzkista di Nanni Moretti). È una storia d’amore che si traduce in incontrollabili sfoghi di astio; è un azzardo di teoria tattica applicata al crollo del comunismo; è un omaggio all’irripetibilità di Maradona cesellata con l’attenzione che può essere riservata soltanto al proprio opposto. La storia si conclude sull’urlo in piena telecamera del Maradona redivivo ai Mondiali del ’94, ma non si capisce se sia un lieto fine. Ne pubblichiamo un estratto.

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Nel 2014 Antonio Gurrado ha pubblicato “Ho visto Maradona” (Ediciclo editore), un romanzetto in cui immagina le ambasce politiche e umane, prima ancora che calcistiche, di un adolescente che vive a Napoli ma è milanista (un po’ come il pasticcere trotzkista di Nanni Moretti). È una storia d’amore che si traduce in incontrollabili sfoghi di astio; è un azzardo di teoria tattica applicata al crollo del comunismo; è un omaggio all’irripetibilità di Maradona cesellata con l’attenzione che può essere riservata soltanto al proprio opposto. La storia si conclude sull’urlo in piena telecamera del Maradona redivivo ai Mondiali del ’94, ma non si capisce se sia un lieto fine. Ne pubblichiamo un estratto.

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Prima che ci riunissimo per iniziare ad ascoltare le radiocronache della nuova stagione venivamo sottoposti alla visione della videocassetta in cui era stato eternato il servizio della Domenica Sportiva del 10 maggio 1987, che si apre con l’immagine della bolgia dello stadio San Paolo di Fuorigrotta che esplode azzurrissima attorno al campo a salutare il primo scudetto del Napoli. Per rispetto e senso della precedenza, nell’occasione il teatro San Carlo ha anticipato la prima del Fidelio di Beethoven onde permettere ai melomani di dedicare l’intera giornata alla partita e agli auspicati strombazzamenti per le vie. Giampiero Galeazzi, inviato sulla linea laterale, nel momento in cui l’arbitro fischia la fine non trova di meglio che arraffare Ottavio Bianchi e infilarselo, tutina azzurra e tutto, sotto la propria voluminosa ascella protettiva. Gli si china di fianco all’orecchio e strilla nel microfono:

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Diciassette e quarantasette!

Ottavio Bianchi lo guarda con la commiserazione che dedicherebbe a un mattaccino che declamasse in piazza Plebiscito l’orario della circumvesuviana.

Dieci maggio!”, insiste Galeazzi; al che Ottavio Bianchi pensa che costui voglia forse far sapere urbi et orbi di essere il fortunato possessore di un’agendina, di un calendario, e il ponderoso giornalista, sentendosi incompreso, spiega all’allenatore del Napoli quanto è appena successo:

Napoli campione d’Italia!

“Eh”, risponde Ottavio Bianchi.

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“Napoli campione d’Italia”, dice nuovamente Galeazzi, a voce più alta, temendo che la controparte sia dura d’orecchio.

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“Sono soddisfatto”, conclude Bianchi e se ne va.

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Le immagini di mamma Rai si spostano nei penetrali dello spogliatoio azzurro, mostrando i napoletani che cantano: “O mamma mamma mamma, o mamma mamma mamma, sai perché mi batte il corazon? Ho visto Maradona, ho visto Maradona: oh, mammà, innamorato son”. Canta anche Maradona, che indubbiamente a casa propria avrà posseduto quanto meno uno specchio in cui vedersi per conto proprio e innamorarsi di sé; intanto detta il ritmo, ritto su un tavolaccio con lo spumante in mano, un preoccupante Giuseppe Volpecina in attillati slip bianchi. Altrettanto seminudo, Maradona a uno a uno prende di fianco a sé i vari Bruscolotti, Bagni e così via e, microfono in pugno, li nomina suoi cavalieri ovvero li ringrazia per tutto quello che hanno fatto per Napoli e per lui.

 

In campo, poco prima, Maradona viene mostrato da un flashback in mezzo a migliaia di sconosciuti accorsi sul terreno di gioco per strappargli un lembo della maglietta, uno sguardo, un capello. Lui si volta verso gli spalti ancora gremiti, a braccia alzate e col numero 10 in favore di telecamera, e poi, quando l’ha braccato l’ineludibile Galeazzi, assume una non saprei quanto studiata aria di inconfutabile malinconia. La vedevo solo io, ma guardavo con attenzione e pensavo: Maradona vittorioso è Maradona triste, che sa di aver fatto ciò che poteva e forse intuisce che più di così non potrà fare. Spiega infatti urbi et orbi:

 

È la cosa più grande della mia vita, veramente. Perché io ho vinto qualcosa però il problema è che non l’ho vinto nella mia terra. M hanno tolto il Mondiale nella mia tierra nel ’78; per quello questa è la festa più importante.”

“Napoli che significa per te a questo punto?”, chiede il sempre puntuale Galeazzi.

“È mia casa, mia casa”, risponde Maradona.

 

Salta gli articoli, gli sfugge un ispanismo ma più di tutto si lascia scappare un “Io ho vinto qualcosa” mentre tutti gli astanti e complici, allo stadio e su Rai Uno, sanno che quel qualcosa è il Mondiale ’86 in Messico, vinto da solo trascinandosi gente come Cuciuffo e Olarticoechea. Galeazzi tenta di ravvivarlo ricordando a lui e al gentile pubblico la luccicante e ancora fresca Coppa del Mondo in bacheca ma Maradona niente, abbozza un cenno di noncuranza. Mi sarei ricordato di questa smorfia quando il professore di filosofia, che amava gli aneddoti più della teoresi, ci spiegò la vita di San Tommaso e ci raccontò come il filosofo moribondo, obeso sul giaciglio, volle scaricare la Summa theologiae e la Summa contra gentiles in un sol colpo dicendo con l’ultimo fiato: “Tutto ciò che ho scritto adesso mi sembra una pagliuzza”. L’Aquinate Maradona del fatidico 10 maggio, nel momento del trionfo, dice rinunciatario: “Io ho vinto qualche pagliuzza”. 

 

 

C’è anzi un attimo in cui, con tutta quella gente attorno che, se non lo amasse di amore incondizionato ed eterno, sembrerebbe volerlo smembrare pezzettino dopo pezzettino, Maradona porta la testa all’indietro in un’inequivoca smorfia di sofferenza. Sembra un Gesù Cristo calato in un quadro di Pieter Brueghel (non saprei se padre o figlio): l’uomo che resta solo anche nella confusione più appiccicaticcia. Ecco come era stato vinto lo scudetto. La partita è contro la Fiorentina ed è finita 1-1. Il Napoli può permettersi di pareggiare ma preferirebbe vincere, non fosse che a un certo punto del primo tempo l’arbitro fischia una punizione per i viola. Sistema la palla sul terreno il giovane Roberto Baggio. Attorno ha la bolgia azzurrissima; davanti una barriera di sei o sette avversari pronti a difendere il goal di vantaggio per mero puntiglio; dietro di loro si acquatta Garella, il portiere capace di parare con tutto il corpo mani escluse. Baggio guarda la palla, guarda il compagno che lo affianca, poi tira a effetto e Garella è subito lì carponi che deve riprenderla dal fondo della rete. Non aveva ancora mai segnato in serie A e allora questa è la spiegazione che ancora oggi mi do: Maradona, col settimo senso che caratterizza i geni, deve avere intuito che, se il goal dello scudetto segnava la sua apoteosi, quello di Baggio gli recapitava a domicilio, magari, l’inizio del tramonto.

 

[…]

 

Ogni collettivo, ogni rientro a scuola a inizio settimana, ogni caffè al bar nell’intervallo era una tappa dell’apoteosi di Maradona, l’uomo per la quale i miei compagni non riuscivano a trovare definizione che non fosse dialettale e che non fosse accompagnata da una ritualità gestuale, da una pirotecnia di onomatopee. Per parlare di Maradona non esisteva parola italiana. Ecco dunque il punto debole della fascinazione collettiva: Maradona era l’incarnazione dello stereotipo napoletano, il messia nel quale un popolo intero aveva atteso per decenni di specchiarsi scorgendovi solo e soltanto la faccia che non loro stessi ma i forestieri avevano forgiato. Nessuno infatti era portato a definire Maradona con termini quali “genio” o “imprevedibile”, per quanto vicino provassi a portarlo col discorso. Chiamare così Maradona l’avrebbe sottratto all’illusione dell’eguaglianza fra lui e il popolo; gli avrebbe precluso l’abbraccio cannibalistico col quale la folla lo venerava come divinità immanente universale. Dal 1987 ogni quartiere aveva il suo murale con l’effigie di Maradona riprodotta infinite volte secondo la vulgata di un volto che su ogni muro era leggermente diverso, come se per essere interamente popolare l’individuo Maradona dovesse camuffarsi e ricevere in prestito ora gli zigomi ora le sopracciglia dell’autore del ritratto, il quale così facendo s’illudeva di un equo scambio e a murale ultimato si sentiva un po’ Maradona anche lui. Il caso limite era un murale all’interno del quale era stata successivamente ricavata una finestra che malauguratamente coincideva con lo spazio del volto del ritratto, così che chiunque vi fosse salito, avesse aperto le imposte e si fosse affacciato, sarebbe stato lui in quel momento il volto di Maradona. A piazzetta Nilo invece c’era una teca davanti alla quale ogni mattina qualcuno si faceva il segno della croce prima di andare a scuola: dentro erano riposti una foto di Maradona e un suo miracoloso capello contornato da rosari lasciati appesi lì. Se uno non credeva in Dio, poteva credere in Diego che scende fra gli uomini e li fa tutti fratelli. 

 

 

E poi “imprevedibile” era davvero l’aggettivo ottimale per un giocatore che s’era sistemato per definizione un po’ di là dal limite del calciatore medio o comunque usuale, e del quale si poteva prevedere ogni mattana? Nessun calciatore tirava da centrocampo, e lui lo faceva. Nessun calciatore segnava con la mano, e lui lo faceva. Nessun calciatore avrebbe potuto trascorrere impunito una notte a ballare travestito da donna e lui lo faceva. Per Maradona il perdono era aprioristico e l’immaginaria eguaglianza che aveva conquistato a beneficio di due milioni di napoletani risultava annacquata nel momento stesso in cui si presentava all’allenamento con gli occhi cisposi e un’ora di ritardo sugli altri; o quando appariva in ritiro dopo essersi concesso due settimane supplementari in Argentina lasciando la pubblica opinione a sfogliare la margherita del tornerà non tornerà; o quando raggiungeva la squadra direttamente in sede di trasferta con l’aereo personale ottenendo, anzi pretendendo di giocare da titolare. Allora si infilava la maglia – quella maglia che per la retorica dei giornali era così azzurrina come il cielo di Napoli, che altrove non è abbastanza cielo, o come il mare di Napoli, che altrove non è abbastanza mare – con il consueto numero 10 che si stagliava candido sulla sua schiena trasformandosi in un enorme egocentrico  IO per catalizzare lo sguardo di ottantamila sostenitori ciascuno dei quali cantava a squarciagola: “Innamorato son”.

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