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Il Foglio sportivo

La danza della scherma

Moris Gasparri

La carriera di Elisa Di Francisca, che ha dato l’addio al fioretto, è la sintesi   di uno sport teatrale e arcitaliano, fatto di pedane come palcoscenici e piccole scuole capaci di conquistare il mondo

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Raccontano le testimonianze storiche che uno dei primi luoghi della cultura sportiva greca del mondo antico fu lo stadio di Eleusi, nella città conosciuta per i misteri eleusini, culti segreti riservati a una minoranza di adepti che si svolgevano presso il santuario dedicato alla dea Demetra. Il legame non è casuale, perché gli stessi atleti che si preparavano per le gare di Olimpia o per gli altri grandi agoni erano considerati nella mentalità greca del tempo degli “iniziati”: per esempio nel rituale olimpico chi superava la selezione per l’ammissione alle gare veniva obbligato a trascorrere il mese che precedeva le gare presso il ginnasio di Elis, per allenarsi e prepararsi al meglio attraverso una vita ritirata e separata dal resto della comunità. A questo destino non sfuggono nemmeno gli atleti del nostro presente, soprattutto quelli delle discipline che trovano nel momento olimpico la loro occasione principale di visibilità (per esempio la scherma), il cui percorso di separazione non è solo quello dei sacrifici e delle rinunce rispetto alle persone comuni, ma anche quello nei confronti dei colleghi calciatori (e cestisti, tennisti, golfisti, ciclisti…) da cui li separa una diversità di soddisfazione del proprio desiderio agonistico molto più crudele e precaria: i Giochi Olimpici sono troppo più importanti di tutte le altre gare, le occasioni per parteciparvi poche, le probabilità di vincere ancora meno, la possibilità di rifarsi di errori commessi indisponibile in tempi brevi, eventuali avversità aggiuntive, come un posticipo causa pandemia mondiale, esiziali negli effetti su programmazioni e speranze. A questo si aggiunge il fatto che di queste angosce il pubblico si interessa poco o punto. 

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Raccontano le testimonianze storiche che uno dei primi luoghi della cultura sportiva greca del mondo antico fu lo stadio di Eleusi, nella città conosciuta per i misteri eleusini, culti segreti riservati a una minoranza di adepti che si svolgevano presso il santuario dedicato alla dea Demetra. Il legame non è casuale, perché gli stessi atleti che si preparavano per le gare di Olimpia o per gli altri grandi agoni erano considerati nella mentalità greca del tempo degli “iniziati”: per esempio nel rituale olimpico chi superava la selezione per l’ammissione alle gare veniva obbligato a trascorrere il mese che precedeva le gare presso il ginnasio di Elis, per allenarsi e prepararsi al meglio attraverso una vita ritirata e separata dal resto della comunità. A questo destino non sfuggono nemmeno gli atleti del nostro presente, soprattutto quelli delle discipline che trovano nel momento olimpico la loro occasione principale di visibilità (per esempio la scherma), il cui percorso di separazione non è solo quello dei sacrifici e delle rinunce rispetto alle persone comuni, ma anche quello nei confronti dei colleghi calciatori (e cestisti, tennisti, golfisti, ciclisti…) da cui li separa una diversità di soddisfazione del proprio desiderio agonistico molto più crudele e precaria: i Giochi Olimpici sono troppo più importanti di tutte le altre gare, le occasioni per parteciparvi poche, le probabilità di vincere ancora meno, la possibilità di rifarsi di errori commessi indisponibile in tempi brevi, eventuali avversità aggiuntive, come un posticipo causa pandemia mondiale, esiziali negli effetti su programmazioni e speranze. A questo si aggiunge il fatto che di queste angosce il pubblico si interessa poco o punto. 

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L’addio alle gare di Elisa Di Francisca, che qualche settimana fa ha pubblicamente annunciato che la seconda gravidanza non le permetterà di essere in pedana a Tokyo per onorare quello che sarebbe stato il suo ultimo appuntamento agonistico della propria carriera, esprime proprio le difficoltà di questo percorso.

 

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Ripercorrere e analizzare la carriera della schermitrice italiana più vincente e popolare dell’ultimo decennio significa riflettere su due aspetti distinti. Il primo riguarda la sua vittoria nella gara di fioretto individuale ai Giochi Olimpici di Londra 2012: non una semplice vittoria, bensì uno dei momenti agonistici più intensi e caratterizzanti dello sport italiano nella seconda decade del nuovo millennio (periodo temporale in verità assai avaro di soddisfazioni se paragonata alle precedenti). Intanto per il suo valore storico – il primo podio tutto italiano in una gara olimpica femminile di scherma, il terzo di sempre – e poi per un altro motivo, che si può comprendere spulciando i report sull’impatto mediatico degli eventi olimpici che il Cio, come la Fifa per le Coppe del Mondo, fornisce al termine di ogni edizione. Confrontando quello di Londra con quello di Pechino 2008 una delle cose che più balza all’occhio è quello relativo all’aumento delle ore di copertura televisiva dell’edizione inglese. Un dato che di suo non dice nulla, ma che, applicato al caso concreto della scherma, significò la possibilità di poter seguire non solo i turni conclusivi della gara, ma tutto il suo sviluppo giornaliero, in una durata pressappoco modellata sulle regole classiche che Aristotele fissò nella Poetica a proposito della tragedia greca. Per chi ha vissuto ogni momento di quell’immersione televisiva, la medaglia d’oro di Elisa Di Francisca possiede un fascino spettacolare unico, fatto di situazioni inattese, per esempio nel primo incontro dove la fiorettista jesina si trovò a dover recuperare da uno svantaggio di 8 a 3 contro la tedesca Golubytsky, facendo temere un’eliminazione precoce quanto catastrofica; di grandi e insperate rimonte, come nella semifinale contro la fortissima coreana Nam, dove di nuovo sotto per 9 a 5 a un minuto dal termine riuscì a rimontare fino al 10-10, per poi vincere al supplementare; infine di grandi exploit, come nella finale in cui, apparentemente di nuovo destinata alla sconfitta, sempre al tempo supplementare riuscì a strappare l’oro dalle mani di Arianna Errigo. Una vittoria di cui resta vivo non solo il valore agonistico (pareggiato dalla rimonta di Valentina Vezzali nella finale per il terzo posto, sempre a spese della malcapitata Nam). In un aureo libretto uscito nel 2019, Scherma, schermo: il regista dietro la maschera (Add editore), un uomo di cinema e schermidore come Davide Ferrario ha saputo distillare pensieri importanti sul valore estetico della scherma, non sempre facile da cogliere e apprezzare per lo spettatore medio, vuoi per regole non immediatamente comprensibili come in altri sport, vuoi per riprese televisive che sono rimaste ancora molto tradizionali nella loro bidimensionalità. C’è una differenza artistica della scherma che fa della pedana un palcoscenico simile a quello teatrale, in cui la presenza del pubblico è resa invisibile e in cui la dialettica tra luce e oscurità, fatta di corpi di luce gettati su un fondo buio, la rende uno sport “caravaggesco”. Un palcoscenico in cui il movimento dei piedi e del corpo assomiglia a una danza rituale, in cui il corpo prende confidenza della spazialità e apprende a dominarla, in una funzione educativa che le grandi scuole teatrali non a caso hanno fatto propria in passato, da Strehler al Piccolo (che ancora oggi conserva tracce di questa tradizione schermistica) alle varie interviste in cui Carmelo Bene citerà la scherma come unica esperienza interessante e formativa dei suoi anni all’Accademia di arte drammatica Silvio D’Amico di Roma. Non sono richiami meramente evocativi, perché per esempio nella formazione infantile di Elisa Di Francisca, sempre riconosciuta come propedeutica alla sua carriera successiva da fiorettista, c’è proprio la danza, e da questo punto di vista tra le tre specialità della scherma niente è più “danzato” del fioretto, ovviamente nella sua congiunzione con l’agonismo. Nella giornata di gloria londinese va quindi apprezzato anche questo particolare magnetismo scenico, che la fiorettista jesina ha saputo incarnare come poche.

 

L’addio all’agonismo sportivo di Elisa Di Francisca va letto anche in un contesto più ampio. Uno dei fattori che spiega la capacità dello sport italiano di vincere e affermarsi in tante discipline differenti è la corrispondenza con il pluralismo politico e culturale che caratterizza la storia nazionale, l’Italia delle “cento città” di cui scrisse Carlo Cattaneo in età risorgimentale. È la ricchezza delle culture locali che nel corso del Novecento modella in profondità la cultura sportiva italiana, soprattutto quella olimpica, creando tradizioni di successo capaci di dar vita a veri e propri “distretti” delle medaglie olimpiche. È soprattutto la scherma a esibire questo tratto, secondo uno schema generale che prevede l’azione iniziale di un fondatore carismatico che crea una scuola indirizzandone la guida tecnica, crescendo mano a mano generazioni di atleti che nel succedersi del tempo danno vita a una cultura emulativa alimentata dai successi, diventando a loro volta allenatori di nuovi atleti, in una catena di trasmissione di un sapere tecnico e di una cultura agonistica in grado di trasformare un evento raro e occasionale come la vittoria di una medaglia olimpica in una costante ripetitiva. Sono questi i motivi che rendono per esempio Livorno la città italiana che, in rapporto alla popolazione, ha vinto più medaglie olimpiche dal 1900 a oggi (nonché la sesta in assoluto), soprattutto nella sciabola, con il Club Scherma Fides a fare da centro propulsore. Le origini di questa cultura schermistica affondano addirittura nella storia economica di una città portuale da sempre dotata di tante connessioni internazionali, che porterà già nel Settecento maestri livornesi di scherma nelle corti reali di Francia e Inghilterra. Una storia di specializzazione più recente, ma con aspetti similari, è quella del Club Scherma Jesi da cui Elisa Di Francisca proviene, con la sua scuola del fioretto fondata e a lungo guidata dal maestro Ezio Triccoli capace di dominare ininterrottamente a livello olimpico con quattro atleti diversi per oltre un trentennio (dal 1984 al 2016), conquistando ben 23 medaglie olimpiche tra competizioni individuali e di squadra (di cui 14 d’oro), con il primo medagliato, Stefano Cerioni, che di Elisa diventerà il mentore, prima recuperandola alle gare dopo un abbandono giovanile, poi portandola, da allenatore, ai due ori di Londra, prima di un “tradimento” sportivo che lo vedrà a Rio allenare la russa Inna Deriglazova, che batterà Di Francisca in finale. Una storia a cui però l’addio della sua ultima campionessa aggiunge ora una nota di malinconia. Non perché sia finita la scuola jesina del fioretto, che al contrario non è mai stata così forte nella sua specializzazione, in una proiezione internazionale fatta di grandi atleti stranieri che scelgono la cittadina marchigiana come residenza, come il forte fiorettista americano Race Imboden, o ancora in camp estivi partecipatissimi da un pubblico giovanile globale, in cui spicca la componente asiatica (per paradosso, sarà qualcuno di loro a toglierci medaglie nei prossimi decenni) in attesa di un nuovo palazzetto della scherma che vedrà la luce nel 2023. È però finito il “primo tempo” di questa scuola, quello fatto da atleti nati e cresciuti attorno e dentro alle mura medievali della città, le stesse che nel 1950 videro l’apertura di una palestra/bottega sotto la guida di un maestro/artigiano reduce dai campi di prigionia britannici in Sudafrica, storia di fondazione magistralmente raccontata in un altro libro prezioso e immancabile nelle biblioteche di ogni appassionato di cultura sportiva, I diavoli di Zonderwater di Carlo Annese. Una scuola capace, in un percorso di condivisione, emulazione e rispetto, ma anche di gelosie, rivalità e odio sportivo, di una magia unica: rendere un fatto casalingo la più universale e globale delle competizioni sportive.

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