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Tragicommedia biancoceleste

Giuseppe Pastore

Dopo il caso tamponi, il clamoroso autogol comunicativo del Boeing 737 acquistato e annunciato dalla società con modalità vagamente anni Ottanta. La Lazio ha un problema di comunicazione

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Da non romano, guardando e riguardando il bel documentario su Francesco Totti trasmesso in questi giorni da Sky – dopo aver asciugato le lacrime per il finale,  di fatto un'esaltazione dai toni praticamente biblici di un grandissimo calciatore ma di un essere umano tutto sommato non trascendentale – ho potuto notare l'enorme delta tra le strategie che la Lazio e la Roma adoperano per comunicare loro stesse.

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Da non romano, guardando e riguardando il bel documentario su Francesco Totti trasmesso in questi giorni da Sky – dopo aver asciugato le lacrime per il finale,  di fatto un'esaltazione dai toni praticamente biblici di un grandissimo calciatore ma di un essere umano tutto sommato non trascendentale – ho potuto notare l'enorme delta tra le strategie che la Lazio e la Roma adoperano per comunicare loro stesse.

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Forte di portare il nome della città eterna e sostenersi (quasi aggrapparsi) a esso, la Roma si esprime sempre per eccesso, generosa e su di giri fino alla caricatura, a cavallo di un'auto-narrazione che la fa sembrare il Bayern Monaco pure se è attualmente sprovvista di un direttore sportivo, tenendo nascosta la circostanza di essere una squadra che – come riporta una delle pagine web più visitate dai laziali, daquandolaromahavintoqualcosa.it – non solleva una coppa da quasi dodici anni e mezzo. La Lazio invece è (insieme al Napoli) la squadra italiana che ha vinto più trofei nell'ultimo decennio esclusa la Juve; oggi è l'unica italiana imbattuta in Champions e nelle scorse settimane ha scollinato due trasferte insidiose a Bruges e San Pietroburgo nonostante una falcidia di indisponibili. Eppure sembra sempre afflitta da un complesso di inferiorità, uno stile passivo-aggressivo che si affida spesso e volentieri allo strumento della querela sporta o semplicemente minacciata, grande asso nella manica degli avvocaticchi di provincia di tutta Italia. Ma come dicevano forse in Boris, in questo Paese una delle cose più importanti è essere simpatici: e la Lazio non ci prova nemmeno. È indicativo il racconto delle ultime due settimane di non-calcio, in cui la Lazio ha liberato le redazioni sportive di tutta Italia dalla tipica angoscia da pausa-Nazionali di non avere nulla da scrivere. Mettiamo da parte il cosiddetto “scandalo tamponi” (che scandalo non è), su cui torneremo dopo; basta e avanza il clamoroso autogol comunicativo del Boeing 737 acquistato e annunciato dalla società con modalità vagamente anni Ottanta (vedi foto di Lotito con espressione giuliva in cabina di pilotaggio, degna di una di quelle pagine Facebook di meme nostalgici del Pentapartito) che hanno fatto indignare e infuriare non la solita stampa complottara, ma uno dei giocatori più forti della rosa, Luis Alberto, che a sua volta – evidentemente senza alcuna capacità di controllo interno – si è abbandonato a una frase spiacevole mentre era in diretta su Twitch, un social evidentemente distante anni luce dalla comunicazione da Prima Repubblica incoraggiata da Lotito. Pasticcio, polemiche, video riparatori, eccetera eccetera.

  

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Non c'è feeling con i media e nemmeno con tutto il mondo fuori, fosse anche uno dei calciatori più vincenti della storia del gioco, il titubante David Silva, freddato lo scorso settembre dopo il suo no alla Lazio da un comunicato sul sito ufficiale firmato Igli Tare: “Ho grande rispetto per il giocatore, ma non per l'uomo”. Questo feeling alla Lazio non interessa nemmeno: preferisce insistere nella sua narrazione di società accerchiata anche quando qualche ragione sembra avercela davvero, come nella tortuosa vicenda dei tamponi che meritava fin dall'inizio un trattamento migliore, più analitico, rispetto alla solita procedura bipartisan di buttarla in politica sportiva – ovvero, in vacca.

 

È possibile che due laboratori altrettanto qualificati possano fornire risultati opposti sui tamponi di uno stesso giocatore? Quanto a lungo può durare l'incertezza sui risultati di un tampone, problema che ha coinvolto negli ultimi tempi anche altri giocatori di altre squadre senza che sorgesse un decimo del caos mediatico sollevato intorno alla Lazio? Domande per nulla banali e tuttora senza risposta su cui stanno indagando un paio di procure e che hanno sollecitato anche l'intervento delle alte sfere per uniformare i vari test molecolari sotto un solo laboratorio. Nella riduzione di un argomento così spinoso a polemichetta da bar, le responsabilità della nostra stampa sono tante quante quelle della Lazio lotitiana preda del solito difetto: la sua incapacità di vedere nella comunicazione un'area importante quanto il campo da gioco o il mercato. A cominciare dal peccato originale della scorsa primavera, l'atteggiamento piuttosto sprezzante avuto nei confronti del Covid-19 nei primi mesi della pandemia, scanditi dalle goffe dichiarazioni del portavoce Arturo Diaconale. Poi la cronaca degli ultimi giorni: prima la società ha evitato di sottoporre ai test i due febbricitanti Strakosha e Lucas Leiva rinviando l'apertura del “caso”, poi non ha fornito per quattro giorni alcuna spiegazione sulle mancate convocazioni di alcuni giocatori per la trasferta di Bruges, contribuendo non poco ad alimentare la confusione. Infine è stata coinvolta in un match di wrestling giornalistico poco edificante con il gruppo editoriale di proprietà del presidente del Torino, che ha affondato la lama oltre il dovuto prendendo a pretesto alcune incaute dichiarazioni del medico sociale Ivo Pulcini. E d'altra parte che linee guida mai aspettarsi, se è lo stesso Lotito a cascare con tutte le scarpe nella tremenda gaffe che ha fatto il giro dei social in mezza mattinata? In quella sua intervista a Repubblica non mancavano concetti condivisibili, ma come può uno dei presidenti più navigati d'Italia pronunciare seriamente la frase “Anche nella vagina di tutte le donne del mondo ci sono i batteri ma mica tutti sono patogeni” e pretendere che queste parole non si prendano la scena del dibattito mediatico?

   

Così come il Napoli, altra società di altissimo livello incline ad agghiaccianti autogol comunicativi, anche la Lazio non è ancora riuscita a liberarsi di un acrimonioso provincialismo. Dovrebbe imparare – ma guai a dirlo ai laziali – proprio dalla Roma: se l'era “americana” dei giallorossi ha un merito, è quello di aver aperto le finestre a uno stile più brillante, originale, moderno, aperto al mondo, sia nelle gag sul web che in alcune campagne social davvero brillanti, come per esempio affiancare agli acquisti del calciomercato, visti e condivisi in tutto il mondo, anche alcune fotografie di bambini scomparsi, in concerto con la Onlus Roma Cares. E quest'atteggiamento, volto a dettare sempre la linea invece di subirla e inseguire, ha coperto mediaticamente (almeno al di là del Grande Raccordo Anulare) più di una magagna sportiva, dirigenziale, amministrativa. Invece a casa Lotito, inveterato uomo di potere e pertanto specchio abbastanza fedele del calcio italiano, si lavora bene ma si respira da almeno dieci anni la stessa solita puzza di chiuso.

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