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Di pugni e di tori

Il ritorno di Mike Tyson, la poesia che fa fermare il mondo

Francesco Palmieri

Dopo aver preso le distanze dal glorioso e tormentato passato, il 28 novembre riemergerà per una sera dall’album degli eroi del Novecento. A volte tornare è necessario. E ogni volta non è con i soldi che si può spiegare tutto

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Tyson con la “york”. Mike Tyson. Il 22 novembre 1986 migliaia di macchine per scrivere stanno battendo in tutte le redazioni della Terra il nome del nuovo campione mondiale dei pesi massimi, il più giovane della storia. Nero, dirompente, cattivissimo anche fuori del ring, sarebbe diventato il pugile più celebre, addirittura il pugilato per chi non aveva mai guardato un incontro di boxe o era fermo al mito di Muhammad Ali. Tyson, ora lo sanno tutti come si scrive Mike Tyson: su migliaia di pc digiteranno il nome, comunque vada, il 28 novembre 2020 quando tornerà sul ring. A 34 anni da quella volta, e dopo 15 di assenza, per incontrare Roy Jones Jr. su otto riprese da due minuti l’una. Più che un match, una esibizione modellata sulla cospicua età di Iron Mike (54 anni) e del rivale (51). Stavolta anche milioni di anonime mani ne renderanno conto, seminando sui social network commenti a quel che avranno visto o che i cronisti avranno raccontato.

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Tyson con la “york”. Mike Tyson. Il 22 novembre 1986 migliaia di macchine per scrivere stanno battendo in tutte le redazioni della Terra il nome del nuovo campione mondiale dei pesi massimi, il più giovane della storia. Nero, dirompente, cattivissimo anche fuori del ring, sarebbe diventato il pugile più celebre, addirittura il pugilato per chi non aveva mai guardato un incontro di boxe o era fermo al mito di Muhammad Ali. Tyson, ora lo sanno tutti come si scrive Mike Tyson: su migliaia di pc digiteranno il nome, comunque vada, il 28 novembre 2020 quando tornerà sul ring. A 34 anni da quella volta, e dopo 15 di assenza, per incontrare Roy Jones Jr. su otto riprese da due minuti l’una. Più che un match, una esibizione modellata sulla cospicua età di Iron Mike (54 anni) e del rivale (51). Stavolta anche milioni di anonime mani ne renderanno conto, seminando sui social network commenti a quel che avranno visto o che i cronisti avranno raccontato.

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Cronisti giovani neanche nati nel novembre 1986 o quelli divenuti anziani, cui il ritorno di Mike farà un effetto straniante come di chi sposta gli orologi indietro o vi rifila un calendario nuovo ma dell’anno scaduto. Più tempo passa più i ritorni risultano insolenti. Per esempio: quel novembre ’86 c’erano Cossiga presidente della Repubblica, Maradona da due anni in campo a Napoli, la Repubblica Democratica Tedesca, i telefoni bigrigi a disco, quelli a gettone e un sacco di cose e di gente che non ci sono più, cominciando da chissà quanti giornalisti che scrissero quel giorno del giovane campione – lui si sarebbe definito, nell’autobiografia del 2013 True, “un fottutissimo ragazzino” – e di cui rari lettori ricordano la firma e amici superstiti il nome e cognome. Ogni ritorno è sfida alla memoria, dolce spina nel cuore, azzardata domanda alla morte. Certo che Tyson torna sul ring per soldi al pari del versatile Roy Jones, già campione in quattro categorie di peso dai medi ai massimi, star dell’hip hop e della tv, persino laureato in legge e naturalizzato russo.

 

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Ma la vita, se i soldi la spiegassero tutta, sarebbe più semplice o immortale mentre è una trappola di specchi, dove chi affidò al corpo i trionfi si riflette più degli altri. Per prepararsi alla serata del 28 novembre, Tyson ha messo giù pancia ridisegnando la tartaruga degli addominali, ha espresso una distanza ascetica dal glorioso e tormentato passato additando come “garbage”, immondizia, le sue cinture di campione, sapendo come tutti che non c’è più quel Tyson e che già forse non c’era quando risalì sul ring dopo la condanna per stupro o dopo i guai con la cocaina una volta che ne ridiscese. Chiunque torna, trascorso tanto tempo, in qualche posto o a qualcosa sa di sé che non è più lo stesso. Persino Ulisse, sebbene fosse rimasto l’unico capace di flettere l’arco lasciato nella reggia a Itaca – malgrado gli anni e i travagli. Persino Tyson, il quale da ragazzo si ripromise un altro eroe: “Volevo essere Achille”.

 

Molto meno esposti alla probabilità del ritorno, per palesi ragioni fisiologiche, diversi calciatori hanno esitato il più possibile prima di abbandonare il campo, sovente con un mesto décalage che li ha portati a terminare in serie assai minori o in paesi esotici e ricchissimi. Ci sono nella boxe analoghi casi illustri o patetici, come quello di Archie Moore “la vecchia mangusta”, che prolungando il suo tempo fino a 47 anni e 220 incontri ebbe il tempo di combattere con più generazioni di pugili. Nel 1955 contese il titolo dei massimi e fu battuto da Rocky Marciano a un’età in cui già avrebbe dovuto ritirarsi, invece attese altri sette anni per incassare il ko da Mohammad Ali, che si chiamava ancora Cassius Clay, nel novembre del ’62. La “vecchia mangusta” non si mostrò ostile verso la stella emergente neppure quando ne subì i consueti deliri verbali a rima alternata, ma per significarne il vaniloquio li liquidò con una battuta incongrua e inaspettatamente colta: “Mi sembrano poesie di Ezra Pound”.

 

Forse la dilatazione del tramonto rende più accettabile il passaggio dal giorno alla notte, perché una carriera irrisolta, come una giornata di cui non si rinviene il senso, si ripropone come un incubo quando s’è fatto buio. Questo a Tyson inculcò Cus D’Amato, il visionario manager del Bronx che lo adottò quand’era adolescente, che leggeva Nietzsche e Machiavelli, credeva all’ipnosi e aveva sfidato la mafia della boxe temendo sempre di venirne ucciso. Aveva atteso per una vita intera l’arrivo dell’allievo ideale, e quando Mike giunse ai suoi sgoccioli Cus s’impegnò con lui come un alchimista che fabbrichi la Pietra filosofale. Gli ripeteva: “Quelli che hanno perso e si sono arresi saranno perseguitati dai propri demoni fin nella tomba, perché hanno avuto una possibilità di affrontarli e non l’hanno fatto”. (Le stesse cose il maestro Yip Man aveva detto forse invano a Bruce Lee adolescente).

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Di demoni nell’animo di Mike c’era una folla, diradata ma non estinta da allora a oggi. È anche per questo che si torna, fosse pure con un match spettacolo: per scacciare i diavoli di dentro finché ancora si può. Nessuno quanto un atleta, che col suo corpo dialoga ogni giorno, “sa dire esattamente cos’ha perso da un anno con l’altro, e a ognuno di questi smottamenti”, nota Antonio Franchini nel racconto Il vecchio lottatore, “ha fatto l’abitudine ricorrendo a una serie di trucchi per attenuarli”. Tornato sul ring, Ali non saltellerà più come prima della sospensione con cui fu sanzionato per renitenza alla leva, anche se riconquisterà il titolo dei pesi massimi. Perché chiunque torna non è mai lo stesso. Nemmeno Ulisse benché pieghi ancora l’arco né il pugile malgrado si riprenda la cintura. Poi, già trascorsa l’ora del tramonto, rimane un terzo Ali (sul terzo Ulisse vige più incertezza): afflitto dal morbo di Parkinson, guarda dalla poltrona l’altro se stesso nella videocassetta della sfida mondiale a Sonny Liston, quando aveva ventidue anni.

 

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Bisbiglia soffocato, indicando col dito tremolante, al biografo David Remnick: “Hai visto che roba? Che velocità! Una delizia!”. Poi, “con grande sforzo, sorride”. No, non è solo per soldi che si torna: è perché tante sere, al momento di andarsene a dormire, chi ha goduto la gloria trova seduto sul letto il proprio amico notturno, come accade ne Il sosia al signor Goliadkin di Dostoevskij. Quando lo riconobbe gli si mozzò il respiro: “L’amico notturno non era altri che lui stesso – lo stesso signor Goliadkin, un altro signor Goliadkin, ma assolutamente tal quale come lui – in una parola, come si dice, il suo doppio, sotto tutti gli aspetti”. Gli sorride, ammicca, strizza gli occhi: allora in due siete troppi. Il più delle volte si finisce per convivere tentando di ignorarsi. Ma se questo non riesce, l’uno uccide l’altro o qualcuno fa di tutto per tornare. Sul ring, su una pista, sul campo da gioco magari come manager, dirigente, allenatore.

 

 

Costretto al ritiro da un infortunio, l’ex calciatore Antonio Pisapia ha preso il brevetto a Coverciano ma il club non lo riassume “perché è un uomo fondamentalmente triste”; al contempo un suo omonimo, cantante di grido, dopo una disavventura giudiziaria non riesce più a ottenere il palcoscenico (anche se è un uomo fondamentalmente allegro). A questo gioco di doppi, che è un dramma di ritorni mancati, Sorrentino dedicò il film L’uomo in più. Anche chi fallisce merita un’epica concava quando ha creduto in qualche sogno. Fosse pure per sperperarlo. Chi non ha dissipato, ha molto meno bisogno di tornare o indugiare mentre intorno annotta. Chi non ha dissipato sceglie l’alternativa al viale del tramonto, che è quella di abolire il viale. Avevano la stessa altezza, un metro e 78, e scarso allungo di braccia Rocky Marciano e Mike Tyson: misure avare per i pesi massimi e che li costrinsero a guardare dal basso in alto colossali avversari solo per rovesciare prospettiva quando li tiravano giù. Rocky però, per salutare il ring, non attese che qualcuno mettesse a terra la sua leggenda.

 

Se n’andò da campione del mondo con 49 incontri vinti (43 per ko), nessuna sconfitta né pareggio da professionista: un record che avrebbe resistito sessant’anni ma di cui comunque non avrebbe potuto vedere la fine, perché morì in un incidente aereo alla vigilia del quarantaseiesimo compleanno, il 31 agosto del ’69. Sin dall’indomani del ritiro avevano cominciato a offrirgli mucchi di soldi per richiamarlo all’agonismo. Però Marciano, con i suoi “no” cocciuti e abruzzesi, preservò il mito unico del pugile imbattuto. In certi casi è certamente meglio non tornare. Sedevano una volta a bordo ring Gay Talese, Frank Sinatra, Norman Mailer (praticamente il giornalismo, la musica e la letteratura); s’incontravano una volta alle barreras delle arene spagnole Ernest Hemingway, Orson Welles, Ortega y Gasset (letteratura, cinema e filosofia) circonfusi dal fumo dei sigari.

 

Adesso sono sempre più pochi coloro che ricordano e amano certi luoghi simbolo del Novecento dove s’applaudiva, si fischiava e si palpitava per protagonisti di storie salvate nella scrittura e che molta ne nutrirono quando era tutta affidata a libri o reportage, quando l’intelligenza non si sgretolava nel fru fru dei tweet e la carta dei magazine profondeva odore d’inchiostro, tattile voluttà, esagerate quadricromie. L’emozione suscitata dal ritorno di Tyson, ben più che da quello di Roy Jones, fa da tempo supplementare alle epopee di cui s’alimentò il secolo scorso. Inoppugnabile è l’anagrafe: Iron Mike fu e resta uomo del Novecento, avendo vissuto fra gli anni Ottanta e Novanta i suoi massimi splendori e le sue miserie. Il prossimo 28 novembre riemergerà per una sera dall’album degli eroi dove è già archiviato fra i brutti e i dionisiaci, sulla pagina opposta agli apollinei come Ali. E meno male per Tyson che non è un torero. Se per chi torna c’è un posto più rischioso del ring, quelle sono le arene: per nessun toro esiste l’arbitro o un accordo preliminare.

 

Se c’è epopea comparabile alla boxe è la tauromachia, malgrado il crescente sfavore con cui appare recepita oltre il pubblico degli aficionados. Se l’album dei ritorni custodisce qualche brutto e improbabile al pari di Tyson, quello è il matador Juan Belmonte: l’innovatore del toreo nel Novecento, che per due volte si ritirò dalle corride e vi si riaffacciò ma mai più come prima. Il suo opposto apollineo si chiamava Joselito, e da quando un toro lo uccise Belmonte cominciò a intuire la propria perpetua sconfitta, perché un torero morto nell’arena vivrà nel mito per sempre. Poteva pareggiare solo se un toro avesse ucciso anche lui, però non gli spettava questo fato. Goffo e piccoletto, Belmonte non si costrinse all’arte ma la adattò a se stesso, facendone gioco di braccia e di immobilità apparente che avrebbe ispirato in futuro lo statuario Manolete.

 

Costruire un’arte partendo dai propri difetti è sempre una rivoluzione. Belmonte la riassunse in una massima famosa: “Se torea como se es”, applicabile a molti ambiti della vita e che sarebbe piaciuta persino a Cus D’Amato. È nelle pagine di Fiesta, assistendo a una corrida di Belmonte, che Hemingway descrive lo spietato paradosso del ritorno (conosciuto benissimo da Rocky Marciano): più sei stato bravo più deluderai. Succede così al matador, con la sua “faccia smorta e gialla e il lungo muso da lupo”. “Quindici anni fa si diceva: se vuoi vedere Belmonte vai presto finché è ancora vivo. Da allora Belmonte ha ucciso più di un migliaio di tori. Quando si ritirò, si formò la leggenda di quello che era stato il lavoro di Belmonte, e quando Belmonte ricomparve, il pubblico rimase male, perché nessuno poteva lavorare così vicino al toro come si diceva che Belmonte facesse, nemmeno, si capisce, Belmonte stesso”.

 

Così in quella tarde a Pamplona, non gemellabile ma prossima alla tarde che vivrà Tyson allo Staples Center di Los Angeles, la folla si sentì defraudata: il torero “aveva creduto”, racconta Hemingway, “di avere un grande pomeriggio, ed era invece un pomeriggio di grida di scherno ed insulti ed infine un lancio di cuscini e pezzi di pane ed ortaggi, gettatigli contro nella plaza dove aveva avuto i suoi più grandi trionfi”. Eppure a volte tornare è necessario. E ogni volta non è con le pesetas che si può spiegare tutto. La spiegazione magari arriva tanti anni dopo. Ormai gloria nazionale vivente, titolare di un podere alle porte di Siviglia, Belmonte assapora il suo “amore autunnale” con Enriqueta, ventott’anni più giovane di lui che sta per compierne settanta. Nella Spagna franchista non c’è il divorzio, il matador risulta ancora sposato e i due non possono convivere. Va a visitarla ogni giorno inventando un rituale scherzoso: quando Juan si congeda, lei gli lancia per le scale una pantofola che lui restituisce l’indomani per rigiocare ancora e ancora la fiaba di Cenerentola.

 

L’8 aprile del 1962, sei giorni prima del suo compleanno, Juan porta a Enriqueta un’inconsueta quantità di doni tra cui una somma in contanti, una penna preziosa e una busta di foto autografate da torero (“se un giorno deciderai di venderle ti pagheranno bene”). Poi se ne torna al podere con l’immancabile pantofola e si fa sellare un cavallo. Non è chiaro quel che avviene verso l’ora del tramonto. Qualcuno ipotizza che Belmonte si sia spinto fino al terreno dove allevava i tori bradi e ne abbia rischiosamente affrontato uno en el campo, come faceva da ragazzo sognando che da grande sarebbe diventato matador. Ma nemmeno quel giorno gli tocca il fato di Joselito, sicché decide lui l’epilogo: rincasato, si apparta nello studio e si spara un colpo in testa. Per il suicida illustre si compie un’eccezione: lo seppelliscono in terra consacrata nel cimitero di San Fernando, poco distante dalla tomba di Joselito. La pantofola non venne ritrovata.

 

 

Enriqueta fu ignorata dalle cronache. Chi lo conosceva meglio, spiegò che Juan era depresso a causa dei crescenti acciacchi, per cui i medici gli avevano proibito anche i sigari e il cavallo. Belmonte non era più quel Belmonte. Si fabbricò, per esserlo l’ultima volta, un estremo tramonto affrontando solitario il proprio toro. Non sempre un ritorno presuppone il pubblico. Meno di un anno prima Hemingway, che non si sentiva più Hemingway, spossato dall’editing di Un’estate pericolosa e dalla depressione, s’era ammazzato con una fucilata in bocca. Quando seppe, Belmonte commentò: “Ben fatto”. (Quei due da tanto tempo s’erano studiati. Con affetto Woody Allen li ripropose giovani entrambi nelle nostalgiche escursioni di Midnight in Paris). Ci si può chiedere, ma è quasi retorico, se l’angoscia (o la vanità) del ritorno riguardi pure la letteratura, arte assai meno dipendente dalla sorte ineluttabile dei corpi. La risposta affermativa, frutto caso per caso di motivazioni individuali, rimanda i nomi più clamorosi di rinuncia irreversibile al paradigma di Rocky Marciano.

 

Se due celeberrimi “imbattuti” quali J.D. Salinger e Arthur Rimbaud smisero di pubblicare, forse è perché sapevano che sarebbero stati comunque ricordati per Il giovane Holden e per Una stagione all’inferno. Chi sceglie di abolire il viale del tramonto, intuendo che la sua epoca di grazia è svanita, s’interessa senza pena ad altre cose: può tramutarsi da poeta in esploratore o commerciante d’armi. È mera supposizione che uno scrittore muoia scrittore o che un pugile, un torero ruotino attorno a palestre e corride fino alla fine della vita. Per pretenderlo a tutti i costi s’ammazzarono quei due: Belmonte perché non sopportava un sosia settantenne che usurpasse l’identità di un matador immenso; Hemingway per liberarsi di un “amico notturno” incapace finanche di pescare o partecipare a un safari e che pareva impasticciarsi tra le pagine anche per semplici giri di frase.

 

Quando torna nell’arena, sette anni dopo il ritiro, Ignacio Sánchez Mejías non lo fa tanto per denaro. È piuttosto che s’annoia. Paradossale motivo del tedio una sovrabbondanza di talenti con successi forse troppo disparati. Per riuscire da matador, Ignacio non s’è mai obbligato a farne l’unica ragione della vita. Nel frattempo è diventato pilota d’aereo, drammaturgo innovativo, giornalista, romanziere e mecenate della Generación del 27, la più importante avanguardia spagnola del ventesimo secolo. In più è presidente della Croce Rossa di Siviglia, del blasonato club calcistico Real Betis Balompié e poi, grazie al fascino intellettuale, all’accattivante aspetto fisico, gli arridono le simpatie femminili. Sposato con Lola, sorella del torero Joselito, alla vigilia del ritorno alle corride (nel 1934) conta due grandi amori: quello vissuto intensamente con la regina del flamenco Encarnación López Júlvez, La Argentinita, musa di García Lorca; quello intensamente non vissuto con la scrittrice francese Marcelle Auclair, fondatrice della rivista Marie Claire.

 

Un domani dirà di lui: “Non cercava di sedurre. Era la seduzione stessa”. Non raggiungendo le finezze di Belmonte o Joselito, il modo con cui Ignacio affrontò i tori enfatizzava gli aspetti più spericolati della tecnica. Fu, scrisse uno storico della corrida, “un caso patológico de valor”. Quando torna nell’arena ha 43 anni, capelli più radi e indecifrabili inquietudini che traspaiono dal fisico appesantito. Eppure s’impegna a toreare alla maniera di sette anni prima. Per caso il 5 agosto, scrutando fra il pubblico nella plaza di Santander, s’accorge che Marcelle gli ha fatto una sorpresa: è venuta a vederlo. S’erano conosciuti l’anno prima a Madrid presentati da García Lorca, avevano parlato fino all’alba ma lei doveva ripartire per la Francia. Il colpo di fulmine ebbe un seguito, che la “damita francesa” avrebbe divulgato solo più di quarant’anni dopo: Ignacio l’aveva raggiunta a Parigi, elegante – lei avrebbe raccontato – come sir Anthony Eden, il ministro britannico che fu negli anni Trenta l’arbiter indiscusso dei gentiluomini europei.

 

Incurante della gelosia di suo marito, il poeta Jean Prévost, l’aveva invitata a uscire. Ma non era destino: un imprevisto richiamò Ignacio urgentemente a Siviglia e l’amore con Marcelle si consumò solo nel lungo bacio in taxi mentre lei l’accompagnava alla stazione: “da l’Étoile a Montrouge” le labbra non si staccarono. La vita è in certi casi ineguagliabile sceneggiatura. Ritrovandosi quel pomeriggio a Santander, Ignacio e Marcelita si promettono un incontro per i giorni successivi, giusto il tempo che lui finisca le corride a cui darà l’addio per sempre. Ma quell’amore proprio no, non era nel destino: stavolta l’imprevisto è che Ignacio dovrà sostituire un collega infortunato, l’11 agosto a Manzanares nella terra di Don Chisciotte. Accetta, ma di malavoglia: chi lo vide nell’arena ne testimonia, entrando, l’espressione stanca. È per fiacchezza o per reazione alla fiacchezza che decide di strafare con un toro di infida apparenza mansueta. Secondo un cronista “non fece nulla per evitare la cornata” nella coscia destra. E poi ancora è destino: Ignacio pretende di farsi operare a Madrid, dal massimo luminare che è il dottor Segovia.

 

Dopo le prime cure a Manzanares sale su un’ambulanza che si guasta nel tragitto e giungerà a destinazione solo il mattino dopo, con la cancrena che ha deposto le sue uova. Ignacio muore alle prime ore del 13 agosto. Privilegio di pochissimi è avere per amico un poeta come Federico García Lorca, che pallido e veggente aveva premonito la fine di Ignacio non appena saputo del suo ritorno ai tori. Troppo straziato per rivederlo morto, subito comincia a scrivere per lui uno dei poemi più belli del mondo: il Llanto por Ignacio Sánchez Mejías scolpisce il ritorno di chi non dovrebbe tornare e di quelli che tornando muoiono con l’oscura ambizione di dettare i tempi della morte o di costringerla a seminare poesia. Se non è poesia, e non lo sarà, almeno sarà per Tyson cronaca di giornali somigliante un poco e per poco – nel saturnino novembre del 2020 – a quella di novembre ’86. Anche se quei cronisti si sono fatti vecchi, altri nemmeno erano nati e alcuni se ne sono andati nell’imprecisato numero dei tanti che si sforzano da sempre, bene o male, di tramandare piccoli e grandi eroi senza essere poeti né piccoli né grandi. Eppure, ancora continuando a scrivere.

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