PUBBLICITÁ

Il Foglio sportivo

Una Suzuki made in Brianza. Parla Davide Brivio

Umberto Zapelloni

A due gare dalla fine di questo strano mondiale MotoGp, la moto giapponese è a un passo dal trionfo addirittura con due piloti, Mir (a cui basterebbe salire sul podio per conquistare il titolo) e Rins

PUBBLICITÁ

Vincere con Valentino, con quel Valentino, era molto più semplice. Erano gli anni in cui Rossi e la Yamaha dominavano e Marquez non era ancora arrivato a rompere le scatole. Davide Brivio, brianzolo di nascita e di carattere, era il team manager di quella squadra che da Gerno di Lesmo partiva per conquistare il mondo.  Quattro mondiali, 2004, 2005, 2008 e 2009, gli ultimi del Dottore. Poi venne il periodo della Ducati con Brivio che, lasciati i giapponesi, si era messo a lavorare solo per Valentino alla Vr46 a Tavullia. Fino alla chiamata dalla Suzuki che nel 2013 decise di tornare in MotoGp. Un’avventura troppo intrigante per lasciarla cadere nel vuoto. L’adrenalina delle corse gli mancava. Il ragazzino che si era affacciato al mondo delle corse scrivendo di motocross, aveva voglia di scommettere su se stesso e sul lavoro che è sempre stato la sua arma segreta. Valentino ha capito, tanto che i rapporti con la Vr46 sono rimasti ottimi da mandarci suo figlio Luca a lavorare e da correre con loro  il rally di Monza (a guidare era sempre suo fratello Roberto, lui faceva il navigatore). “Lavorare con Valentino mi ha lasciato la mentalità di vincere. Un campione, sportivamente parlando, è spietato: se può, quando scende in pista, o in campo, non lascia nemmeno le briciole, vuole vincere. Sempre. Prima di Valentino, un podio si festeggiava. Con lui, invece, eravamo depressi per un secondo posto. È cambiata la prospettiva”. 

ABBONATI PER CONTINUARE A LEGGERE
Se hai già un abbonamento:

Altrimenti


Vincere con Valentino, con quel Valentino, era molto più semplice. Erano gli anni in cui Rossi e la Yamaha dominavano e Marquez non era ancora arrivato a rompere le scatole. Davide Brivio, brianzolo di nascita e di carattere, era il team manager di quella squadra che da Gerno di Lesmo partiva per conquistare il mondo.  Quattro mondiali, 2004, 2005, 2008 e 2009, gli ultimi del Dottore. Poi venne il periodo della Ducati con Brivio che, lasciati i giapponesi, si era messo a lavorare solo per Valentino alla Vr46 a Tavullia. Fino alla chiamata dalla Suzuki che nel 2013 decise di tornare in MotoGp. Un’avventura troppo intrigante per lasciarla cadere nel vuoto. L’adrenalina delle corse gli mancava. Il ragazzino che si era affacciato al mondo delle corse scrivendo di motocross, aveva voglia di scommettere su se stesso e sul lavoro che è sempre stato la sua arma segreta. Valentino ha capito, tanto che i rapporti con la Vr46 sono rimasti ottimi da mandarci suo figlio Luca a lavorare e da correre con loro  il rally di Monza (a guidare era sempre suo fratello Roberto, lui faceva il navigatore). “Lavorare con Valentino mi ha lasciato la mentalità di vincere. Un campione, sportivamente parlando, è spietato: se può, quando scende in pista, o in campo, non lascia nemmeno le briciole, vuole vincere. Sempre. Prima di Valentino, un podio si festeggiava. Con lui, invece, eravamo depressi per un secondo posto. È cambiata la prospettiva”. 

PUBBLICITÁ

 

“Valentino mi ha insegnato che sono importanti i dettagli, cosi come la motivazione. Vale quando scende dalla moto è estroverso, giocoso. Ma quando si tratta di lavorare diventa ordinato, preciso, attento ai dettagli. Alla fine è il suo segreto: prendere le cose con divertimento”.

 

PUBBLICITÁ

A due gare dalla fine di questo strano mondiale senza Marquez, la Suzuki è lì a un passo dal trionfo addirittura con due piloti, Mir e Rins. Brivio non ci vuole pensare, ma sa che a questo punto il mondiale è più difficile perderlo che vincerlo. “Mi sembra di sognare, non ci voglio credere. Più di così non potevo chiedere. Questa è una stagione storica, dobbiamo essere orgogliosi di quello che stiamo facendo”. Forse è anche per questo che domenica scorsa a Valencia (dove si correrà anche in questo weekend) il suo cuore batteva all’impazzata come hanno potuto vedere i telespettatori, visto che era monitorato in mondovisione. “Sono sempre molto teso, forse perché non sono stato un pilota. Non riesco a capire quanto siano bravi a tenere sotto controllo la situazione e magari mi agito anche di più. Ho paura di una caduta, di una scivolata che potrebbe rovinare tutto…”. E il cuore batte forte: 112…115…130, anche 140… L’ultima volta della Suzuki nella classe regina risale al 2000 con Kenny Roberts jr. Prima con la casa di Hamamatsu erano arrivati al titolo anche Uncini e Lucchinelli. Un certo feeling con l’Italia c’è sempre stato insomma. E il segreto del successo sta probabilmente proprio in questo mix tra il rigore giapponese e il decisionismo brianzolo.

 

“I giapponesi sono molto precisi, fanno lunghe riunioni, sono programmatori e per noi italiani, creativi e improvvisatori è un bel problema. Ma insieme facciamo un bel mix: la nostra creatività con la loro metodicità. Lavorare con loro mi ha insegnato ad avere metodo, ma ricordo la mia inesperienza iniziale. Era dicembre e guardavamo il calendario di gare di tutto l’anno. Volevano sapere come avremmo viaggiato, l’itinerario e ogni minimo dettaglio per la gara di novembre, a un anno di distanza. Non ci volevo credere. Ora sono abituato, ho imparato a programmare. Con loro si decide cosa fare e si fa ciò che si è deciso. Altrimenti si ridiscute tutto da capo. Intuizione italiana e metodicità giapponese sono un bel mix”. Dai giapponesi, anzi da un giapponese in particolare, da Masao Furusawa, mitico ingegnere della Yamaha ai tempi di Vale, ha imparato un’altra cosa fondamentale: fare di testa sua. “Quando sono andato a trovarlo in Giappone prima di cominciare la mia esperienza con la Suzuki, mi ha consigliato di non copiare gli altri, di scegliere una strada mia e di seguirla. Copiando gli altri sarei sempre arrivato dopo, facendo a modo mio avrei potuto star loro davanti”.

 

E Brivio quel consiglio l’ha seguito a cominciare dai piloti. È sempre andato a cercarli giovani, anche inesperti. “Mi piace farli crescere, lavorare con loro almeno quattro anni”. Ha cominciato con Viñales, ha fallito con Iannone, ci ha riprovato con Alex Rins e Joan Mir, il 23 enne figlio di Palma di Maiorca che al suo secondo anno in MotoGp sta diventando campione del mondo. Anche con gli ingegneri e i meccanici ha scelto la stessa filosofia. Largo ai giovani, basta che siano motivati. E si respira un’aria famigliare anche nel team che ha base in Brianza, a Caponago, a una ventina di minuti da Galgiana dove è nato nel 1963. Lo ha raccontato anche Viñales quando ha deciso di andare in Yamaha perché credeva di avere più chance di vittoria: “Mi manca l’ambiente della Suzuki, quell’atmosfera che c’era in squadra e rendeva tutto più semplice”. E giocando sulla squadra Brivio è riuscito a mettere i suoi piloti uno contro l’altro, ma a farli lavorare di squadra. Concorrenza costruttiva, quella che servirebbe anche in Ferrari per fare un paragone con la Formula 1, per non dire in Ducati dove si ricorderanno a lungo questa stagione disastrosa.

PUBBLICITÁ

 

PUBBLICITÁ

Mir ha collezionato 7 podi, vincendo per la prima volta domenica scorsa, Rins ha vinto una volta e conquistato 4 podi. A Valencia hanno regalato alla Suzuki una doppietta che mancava dal 1982, dai tempi di Randy Mamola e Virginio Ferrari.

 

PUBBLICITÁ

Domenica a Mir basterà salire sul podio per festeggiare il titolo. “Brivio è stato bravo ad armonizzare il metodo di lavoro giapponese con quello italiano ed europeo”, gli ha mandato a dire Valentino Rossi guardando con un po’ di invidia le due Suzuki. “Abbiamo puntato a una moto agile, ben bilanciata e equilibrata – ha spiegato Brivio –  Il nostro punto di forza? Non dobbiamo fare troppi cambiamenti tra un circuito e l’altro e neanche per le gomme. La moto è cresciuta con i piloti, che hanno creduto nel progetto. È stato un matrimonio perfetto con entrambi”. E i giapponesi ringraziano l’uomo venuto dalla Brianza.

Di più su questi argomenti:
PUBBLICITÁ