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Il Foglio sportivo

“Il Sassuolo non è un miracolo". Parla Roberto De Zerbi

Giorgio Burreddu

“La classifica la sto guardando. Ma va guardata con ambizione e non come responsabilità. Senza calcio sono vuoto”. Intervista all'allenatore che guida la squadra al secondo posto in Serie A  

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"Senza calcio sono vuoto. Non perché non abbia altri interessi, ma nei giorni come questa sosta ho un picco all’ingiù, mi manca l’adrenalina della partita, lo stress”. C’è qualcosa di atavico in quest’uomo dai contorni definiti, geometrici. E non è solo la voce di Roberto De Zerbi, profonda e lontana. È qualcosa che ha a che fare con la luce, col vedere le cose. “Cos’è per me il calcio l’ho capito al volo. Sono nato a cinque metri dall’oratorio di Mompiano, a cento dallo stadio Rigamonti, metà della mia infanzia è il gioco e l’altra metà è il Brescia. Metto la professionalità del calciatore e la passione del tifoso, per questo le mie squadre hanno il mio carattere. È più facile da trasmettere perché sei tu. Il calcio è un modo di esprimere me stesso”.

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"Senza calcio sono vuoto. Non perché non abbia altri interessi, ma nei giorni come questa sosta ho un picco all’ingiù, mi manca l’adrenalina della partita, lo stress”. C’è qualcosa di atavico in quest’uomo dai contorni definiti, geometrici. E non è solo la voce di Roberto De Zerbi, profonda e lontana. È qualcosa che ha a che fare con la luce, col vedere le cose. “Cos’è per me il calcio l’ho capito al volo. Sono nato a cinque metri dall’oratorio di Mompiano, a cento dallo stadio Rigamonti, metà della mia infanzia è il gioco e l’altra metà è il Brescia. Metto la professionalità del calciatore e la passione del tifoso, per questo le mie squadre hanno il mio carattere. È più facile da trasmettere perché sei tu. Il calcio è un modo di esprimere me stesso”.

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Molti lo avevano già capito forse anche prima di lui e tutte le volte che si parla di De Zerbi si finisce col parlare di idee, di pensieri che illuminano il calcio nuovo. “Si tende sempre a giudicare se uno vince o perde, se è giusto o sbagliato. Ma l’importante è che l’idea abbia dietro un perché, una finalità, una logicità”. Le sue stanno ribaltando il vecchio concetto di Serie A, “si trovano squadre che giocano, hanno coraggio, è il gusto del fare la partita e non solo del difendersi”. Sassuolo, anche grazie a De Zerbi, è ormai un’oasi a rovescio: il cemento e le fabbriche di ceramica e attorno la curiosità. Al centro di tutto c’è il calcio, e un secondo posto in classifica con vista panoramica. “Questa è un’azienda che sa camminare perché è formata da persone competenti”, racconta l’allenatore al Foglio Sportivo, “non è un miracolo. È la continuazione del progetto di Squinzi, a cui noi cerchiamo di rendere onore. Che il calcio possa essere paragonato a un’azienda è giusto, muove soldi. Ma negli ultimi anni si è scelta la direzione economica a discapito di quella sentimentale. E la gente si sta distaccando dal pallone”. Per questo piacciono allenatori come Zeman, Guardiola o Klopp. Allenatori come De Zerbi. Perché guardano il pallone sotto un’altra luce. E non vuol dire non buttare l’occhio alla classifica. “La sto guardando, sì. Ma la classifica va guardata con ambizione e non come responsabilità. Potevamo avere qualche punto in più. Però dobbiamo anche pensare da dove siamo partiti tre anni fa. Stare in basso è più difficile”.

 

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Viene da un mondo che sa di antico, De Zerbi. “Quella di oggi credo sia una generazione con meno personalità, probabilmente anche i social riescono a tenere nascosto il coraggio, non fanno spiccare un’identità. Il rispetto oggi te lo devi conquistare, altrimenti vieni calpestato”. A quindici anni si trasferì in collegio, a Milanello per giocare nel Milan. Ce lo portarono i genitori, “e ricordo la faccia di mia madre mentre andava via”. Alviana, laureata in Lettere, maestra alle elementari, che oggi guarda tutte le sue conferenze stampa. “Vuole che parli in maniera corretta, mi mette pressione”. Papà Alfredo partì dalla Calabria negli anni Sessanta per venire a vendere le Rotowash nel nord profondo. Poi la domenica c’era sempre lo stadio come grande bellezza. “A papà sono legatissimo. Vengono a galla frasi che mi diceva e alle quali non pensavo, me le ritrovo nella vita giorno dopo giorno. Amo i miei figli, ma vorrei essere più presente, più attento, vorrei essere un padre come è stato lui. Io purtroppo non sono così bravo. Per fare questo lavoro ad alti livelli qualcosa devo concedere, qualcosa paghi. Ma se la mia famiglia ha bisogno di me, mollo tutto, subito, la carriera, ogni cosa”.

 

Da Milanello Roberto prendeva il treno fino in Centrale, poi saliva su un altro per andare a vedere il Brescia ovunque giocasse. È la prima vita di De Zerbi, quella da calciatore, più oscura, con le ombre, anche se tutti in campo lo chiamavano Luce. “Ci sono stati momenti duri, momenti in cui stavo giù di morale perché vedevo le cose che non andavano come speravo. Però sono uno testardo, fino a quando non raggiungo quello che voglio non mi fermo, vado anche contro tutto, contro l’apparenza. Da calciatore ho avuto tanti infortuni, fare una carriera da allenatore superiore a quella di calciatore mi ripaga dalle amarezze che ho avuto nella prima esperienza. Se sei competente, ti comporti bene, ti impegni, alla fine vieni ripagato”. Ma il buio è sempre lì, la vita te lo ricorda sempre. “Le sconfitte insegnano, poi però ci sono quelle che segnano e non potranno mai essere cancellate. Per me è la finale play-off per andare in B con il Foggia, una cicatrice indelebile. Avevo 34 anni, c’erano trentamila persone allo stadio. Ci sono giorni in cui ci penso ancora, notti intere, è un dolore fisico”. Con gli allenatori litigava, “su quindici che ho avuto con dodici ho litigato. Uno? Non ve lo dico, ci fate il titolo. Qualche volta si sbaglia, e anche l’allenatore può chiedere scusa. Essere poco coerente, ambiguo, egoista: queste erano cose che odiavo. Cerco sempre di non essere così, cerco di ricordarmelo. Meglio dire una cosa brutta, piuttosto che trascinare avanti le cose”.

     

Non è solo un vezzo. Anche i giocatori lo paragonano ai grandissimi maestri: l’ultimo è Bielsa. “Ma non regge”, dice De Zerbi, “i paragoni non sono pesanti, sono un complimento. Il problema è degli altri, pensano veramente che sia di quel livello. Invece non lo sono adesso”. E ancora: “Ho un ordine mentale, ma non sono schematico. Coi giocatori sono esigente e molto duro, pesante. Certe volte, quando finisce l’allenamento, mi pento di come ho attaccato qualcuno. E quindi provo a stare vicino a tutti, a essere presente, attento a quello che può servire per la vita calcistica ma anche per quella fuori”. Nella piena luce del giorno anche i concetti splendono, De Zerbi lo sa. “Si dice: il giocatore deve pensare al noi e non all’io. Lo trovo ipocrita, non credo ci sia un giocatore al mondo che pensa al noi e poi all’io. Uno di trent’anni non può avere gli stessi obiettivi di uno di venti. L’importante è pensare all’io nella maniera giusta. L’obiettivo di una squadra è l’unione di tanti obiettivi personali”. Anche questo è un modo di guardare.

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