PUBBLICITÁ

Il Foglio sportivo

Ma quale Loco. Salviamo Bielsa dal suo soprannome e dalla retorica

Moris Gasparri

L’allenatore argentino del Leeds è tutto fuorché un pazzo. Viaggio alla radice del suo modo di vivere e interpretare il calcio, tra spirito filosofico, fede cattolica e studio sistematico di ogni particolare

PUBBLICITÁ

Ogni approfondimento che abbia come oggetto del proprio discorrere la figura di Marcelo Bielsa si espone a una critica preventiva: la banalità della scelta. Una delle cause principali della diffusione ormai planetaria del culto bielsiano, specie dopo il suo approdo nel firmamento della Premier League, è sicuramente nel soprannome con cui l’allenatore di Rosario è universalmente noto e conosciuto: El Loco. Nel giornalismo sportivo e nella percezione popolare Bielsa è divenuto da tempo una specie di topos letterario: una versione calcistica del fool shakespeariano costruita su una ricca aneddotica capace da un lato di elencare e riportare con precisione le sue presunte pazzie e stranezze, in un aggiornamento che si succede a ritmo costante, dall’altro di esaltarle spesso in un’aura di indefinito romanticismo. 

ABBONATI PER CONTINUARE A LEGGERE
Se hai già un abbonamento:

Altrimenti


Ogni approfondimento che abbia come oggetto del proprio discorrere la figura di Marcelo Bielsa si espone a una critica preventiva: la banalità della scelta. Una delle cause principali della diffusione ormai planetaria del culto bielsiano, specie dopo il suo approdo nel firmamento della Premier League, è sicuramente nel soprannome con cui l’allenatore di Rosario è universalmente noto e conosciuto: El Loco. Nel giornalismo sportivo e nella percezione popolare Bielsa è divenuto da tempo una specie di topos letterario: una versione calcistica del fool shakespeariano costruita su una ricca aneddotica capace da un lato di elencare e riportare con precisione le sue presunte pazzie e stranezze, in un aggiornamento che si succede a ritmo costante, dall’altro di esaltarle spesso in un’aura di indefinito romanticismo. 

PUBBLICITÁ

 

Se la scelta può sembrare banale, crediamo non lo sia il tentativo di leggere da una prospettiva diversa un personaggio che per la sua particolare educazione familiare, la sua vasta cultura, l’originalità delle sue idee e la diversità del suo comportamento rappresenta indubbiamente un personaggio unico nel mondo del calcio. Il soprannome con cui Bielsa è universalmente conosciuto è fuorviante, e ha generato un’immagine che va decostruita. Ne conosciamo l’origine, legata ai momenti iniziali della sua carriera da allenatore in Argentina, in cui dei metodi di allenamento ritenuti stravaganti (soprattutto perché molto esigenti rispetto al contesto in cui Bielsa operava, il settore giovanile di un club non di primissima fascia come il Newell’s Old Boys) gli valsero un soprannome che intendeva esaltarne la distinzione e l’ossessione nello svolgere il proprio lavoro.

 

PUBBLICITÁ

L’episodio più celebre di questa pazzia fu il viaggio fatto per scovare nuovi talenti da portare nella primavera da lui allenata, guidato da una mappa in cui il territorio dell’Argentina venne dallo stesso Bielsa suddiviso in 85 parti, con lo scopo di visitarle e “dragarle” tutte (da questa “pesca” sapientemente organizzata spuntarono poi futuri giocatori del calibro di Batistuta e Pochettino). Pazzo l’allenatore argentino lo fu sicuramente nell’esultanza furiosa mostrata al termine della partita contro il San Lorenzo in cui il Newell’s Old Boys si laureò campione del campionato argentino di Apertura nel 1990, in cui regalò a favore di telecamera un poco oxfordiano Newell’s carajo! gridato ai suoi tifosi con faccia invasata (en passant, quel titolo assieme ad altri successi ottenuti negli anni successivi gli è valso un onore riservato a pochissimi sportivi nel mondo, uno stadio intitolato in vita). L’appellativo di loco è però diventato nel tempo una gabbia di forza capace di occultare una natura del personaggio che è invece radicalmente contraria, essendo fondata su una particolare unione di fede e ragione, filosofia e spirito cattolico.

 

“Conquistare può solo colui che conosce la propria preda meglio di quanto questa conosca se stessa”. Il razionalismo calcistico bielsiano ha idealmente il suo punto di partenza nel motto del filosofo hegeliano Bruno Bauer, di cui il giurista tedesco Carl Schmitt fece nel Nomos della Terra il simbolo della forza conoscitiva alla base della moderna conquista europea del mondo. Sono esattamente le parole che Guardiola rivolse a Bielsa dopo aver ricevuto in omaggio dal tecnico di Rosario il report di studio degli avversari realizzato per la finale di Coppa del Re della stagione 2010/2011, persa dall’Athletic Bilbao per 3 a 0: “Tu sai più cose del Barcellona di quante ne sappia io”. Una volontà di sapere assoluta e insaziabile, incarnata nelle oltre 50.000 partite visionate, analizzate e vivisezionate nella sua carriera, studiando calciatori e squadre avversarie, sempre con una preminenza accordata all’elemento visivo e non all’astrattismo statistico oggi imperante in tempi di big data (in questa preferenza visiva è riconoscibile l’impronta della sua fortissima passione cinefila, confessata qualche anno fa in una lunga intervista). L’antagonismo in cui consiste ogni vero agonismo sportivo stimola la conoscenza, ne esige la ricerca; l’allenatore è una figura “condannata” all’esercizio del pensiero, al contrario del senso comune che crede lo sport come dimensione unicamente corporea e muscolare. Possiamo immaginare Bielsa intento nella visione di una partita come una versione contemporanea della tradizionale rappresentazione iconologica di San Girolamo nello studio. Da questa prospettiva conoscitiva va riletta anche la mappatura di cui abbiamo detto in precedenza, vedendo in essa non una mera follia, bensì il frutto di una costruzione razionale e meticolosa.

 

La dialettica rinascimentale tra Virtù e Fortuna è alla base del successo spettacolare del calcio e della sua insuperata forza attrattiva, ed è anche alla base della ricchezza culturale del calcio argentino, in cui questa dialettica ritorna. Il razionalismo agonistico bielsiano consiste proprio nella volontà di dominare razionalmente il caso e la contingenza che intessono le dinamiche di una partita di calcio, attraverso un preciso metodo e una precisa strategia. Per Bielsa senza l’esibizione della virtù rappresentata da questo ferreo razionalismo le vittorie non sono vere vittorie. Questo metodo si traduce concretamente in una volontà collettiva di attaccare da perseguire ossessivamente in ogni istante della partita, come confessato qualche tempo fa dal centrocampista del Paris Saint Germain Ander Herrera, suo “discepolo” nel periodo bilbaino, e in una cura maniacale delle situazioni di gioco e dei dettagli. Nella ricca tradizione argentina del pensiero calcistico il ruolo della Fortuna è rappresentato invece dalle idee di Dante Panzeri. Come recita il titolo del suo libro più famoso, l’essenza del calcio è dinamica de lo impensado, arte dell’imprevisto, la sorpresa nascosta in un gol segnato o subìto al 95’, magari sugli sviluppi di una mischia in area e con un tiro tecnicamente impreciso, oppure per un autogol o per un’imponderabile decisione arbitrale (non sfuggirà al lettore che la posizione anti-filosofica di Massimiliano Allegri è in realtà debitrice inconsapevole della visione filosofica panzeriana del calcio). Di questa finitezza costitutiva della razionalità calcistica è consapevole lo stesso Bielsa, che nella medesima conferenza in cui rivelò l’aneddoto di Guardiola aggiunse, con una punta d’ironia, che quello studio dettagliato non era servito a nulla se non a fungere da calmante psicologico della tensione pre-gara, argomento alla base della rivendicazione d’innocenza fatta nella polemica scoppiata nel suo primo anno al Leeds dopo l’avvenuta scoperta dello spionaggio degli allenamenti delle squadre rivali fatto da membri del suo staff. Il lavoro per cementare l’organizzazione collettiva accumulato negli allenamenti è il corrispettivo calcistico della virtù machiavelliana che eroicamente si oppone all’azione imprevista e spesso non rimediabile della fortuna, il “riparo” predisposto all’esondare di un fiume che può sempre e in ogni istante travolgere piani e schemi. Le vittorie calcistiche sono per Bielsa vere vittorie solo se manifestano l’intenzione che nulla accada per caso nel processo che porta al loro ottenimento. Per questo motivo arroccarsi in una strategia difensivista, sperando che un’occasione casuale e fortunosa possa regalare il successo, è nella sua visione razionalista la negazione suprema della verità del calcio: è la secolarizzazione  calcistica della teodicea secentesca di Leibniz, particolare connessione tra fede cristiana, spirito filosofico e razionalismo giuridico (mai dimenticare che Rafael Bielsa, nonno di Marcelo, è stato il padre del diritto amministrativo argentino). In quest’ottica va interpretato anche l’autogol ordinato ai suoi giocatori nella partita di due stagioni fa contro l’Aston Villa, in cui va visto non solo un omaggio allo spirito plurisecolare del fair play inglese, ovvero il rispetto di regole non scritte che mantengano la giustizia della contesa qualunque sia il suo esito finale, ma anche il voler espellere dal quadro della vittoria l’intervento decisivo di aiuti accidentali, nel caso specifico l’avversario infortunato a terra nel momento dell’azione del vantaggio del Leeds. Vincere senza rispettare questa particolare forma di teologia razionalistica, come accade ad esempio nell’ossessione agonistica mourinhiana di accumulare titoli e trofei, è qualcosa che non ha mai interessato Bielsa nella sua ormai trentennale carriera di allenatore.

PUBBLICITÁ

 

PUBBLICITÁ

Il pensiero calcistico di Bielsa è però un pensiero dialettico, consapevole del fatto che la verità della vittoria necessita dell’errore. La sconfitta non è solo un dolore da sopportare con fatica, ma può anche diventare, in una particolare versione sportiva della sindrome di Stoccolma, qualcosa per cui provare un’attrazione fatale. Nota è la sua citazione sul suo grande valore formativo, capace di offrire un vero sapere su sé stessi, al contrario della vittoria che deforma le proprie capacità, specie se ottenuta senza merito: lo sport non impara solamente a saper perdere, ma anche e soprattutto a comprendere che perdere è un sapere.

 

PUBBLICITÁ

L’indagine del razionalismo bielsiano non è però completa senza il richiamo a un altro fattore decisivo, il radicamento nella fede cattolica. Famoso il suo ritiro trimestrale in un monastero dopo le dimissioni rassegnate da allenatore dell’Argentina nel settembre del 2004, così come la visita a un monastero di monache di clausura di un paesino vicino a Bilbao, ai tempi della sua guida dell’Athletic, poi omaggiate alla partita successivo di un saluto su un bigliettino. La fede di Bielsa possiede però una dimensione ben più profonda di questi aneddoti estemporanei, ancorata a quel cattolicesimo ispanico e gesuitico su cui lo storico Loris Zanatta ha recentemente scritto dei saggi molto importanti. Due gli esempi di un discorso che meriterebbe una trattazione più articolata. 
La saggezza comune del calcio vuole che gli allenatori, in caso di sconfitta, debbano evitare di parlare in spogliatoio a partita appena conclusa, per evitare conseguenze psicologiche negative. Nel suo video più celebre lo si vede al contrario parlare agli esausti e atterriti giocatori dell’Olympique Marsiglia nei minuti successivi a una sconfitta contro il Lione esiziale ai fini della classifica, chiedendo loro con voce ferma e persuasiva di accettare l’ingiustizia del risultato e il dolore conseguente, perché, anche se apparentemente impossibile, todo se equilibra al final. Come ben colto dal filosofo napoletano Davide Grossi, da uno spogliatoio calcistico al richiamo della Provvidenza divina di vichiana e manzoniana memoria il passo è a volte molto più breve di quanto si possa immaginare.

 

L’ossessione per i centri sportivi e per la qualità delle loro dotazioni, di cui abbiamo una conferma nella testimonianza di Walter Sabatini sul colloquio preliminare avuto con il tecnico argentino al tempo dei suoi incarichi dirigenziali alla Roma, in cui Bielsa si presentò con idee precise per il rifacimento di Trigoria, o l’esperienza alla guida della Nazionale cilena, dove appena insediato pretese immediatamente il riammodernamento completo del centro federale, scegliendo anche di viverci. Il centro d’allenamento non è per Bielsa un mero luogo funzionale, ma il luogo isolato in cui ci si riunisce quotidianamente tutti assieme – educatore ed allievi – nel percorso pedagogico verso la verità, come accadeva nelle cittadelle delle missioni gesuitiche seicentesche in Paraguay.

Di più su questi argomenti:
PUBBLICITÁ