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Il Foglio sportivo

Il rugby ha perso il terzo tempo

Marco Pastonesi

Si conclude il Sei Nazioni, allo stesso tempo il più lungo sul campo e il più breve fuori dal campo. E senza la possibilità di ribaltare tra partita tra pinte e abbuffate

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Sabato l’ultimo capitolo del Sei Nazioni 2020, che entra nella storia come il torneo più lungo sul campo, ma il più breve fuori dal campo. Perché le partite si protraggono da nove mesi (la prima il primo febbraio), ma causa pandemia si concludono senza il terzo tempo. Galles-Scozia (alle 15.15), Italia-Inghilterra (all’Olimpico di Roma, alle 17.45) e la decisiva Francia-Irlanda (alle 21.05, tutte e tre in diretta tv DMAX) vivranno solo nei due tempi giocati da 40 minuti più recupero, non nel terzo tempo mangiato e bevuto con il tradizionale banchetto che celebra l’amicizia fra le squadre e lo staff arbitrale. Gli anglosassoni lo chiamano “after match” o “third half”, i francesi “troisième mi-temps”, gli italiani terzo tempo. La sua storia si perde in secoli di spogliatoi e sedi sociali, non ha una Betlemme, non ha una culla, ma vanta storie, leggende e miti. È come se il terzo tempo fosse sempre esistito. “Il terzo tempo, questa magnifica abitudine rugbistica – scriveva Ernesto “Che” Guevara, che giocava nel San Isidro (Che Guevara, il rugby di autori vari, Sedizioni) –, è qualcosa di sconosciuto da noi, eppure è una tradizione che rende questo sport così piacevole”. La squadra di casa ospita la squadra in trasferta e i direttori di gara, nella propria club-house ma anche direttamente sul campo, per una mischia gastronomica, per una touche alcolica, per un sostegno di cori e canti, per una meta comunitaria e umanitaria.

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Sabato l’ultimo capitolo del Sei Nazioni 2020, che entra nella storia come il torneo più lungo sul campo, ma il più breve fuori dal campo. Perché le partite si protraggono da nove mesi (la prima il primo febbraio), ma causa pandemia si concludono senza il terzo tempo. Galles-Scozia (alle 15.15), Italia-Inghilterra (all’Olimpico di Roma, alle 17.45) e la decisiva Francia-Irlanda (alle 21.05, tutte e tre in diretta tv DMAX) vivranno solo nei due tempi giocati da 40 minuti più recupero, non nel terzo tempo mangiato e bevuto con il tradizionale banchetto che celebra l’amicizia fra le squadre e lo staff arbitrale. Gli anglosassoni lo chiamano “after match” o “third half”, i francesi “troisième mi-temps”, gli italiani terzo tempo. La sua storia si perde in secoli di spogliatoi e sedi sociali, non ha una Betlemme, non ha una culla, ma vanta storie, leggende e miti. È come se il terzo tempo fosse sempre esistito. “Il terzo tempo, questa magnifica abitudine rugbistica – scriveva Ernesto “Che” Guevara, che giocava nel San Isidro (Che Guevara, il rugby di autori vari, Sedizioni) –, è qualcosa di sconosciuto da noi, eppure è una tradizione che rende questo sport così piacevole”. La squadra di casa ospita la squadra in trasferta e i direttori di gara, nella propria club-house ma anche direttamente sul campo, per una mischia gastronomica, per una touche alcolica, per un sostegno di cori e canti, per una meta comunitaria e umanitaria.

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E così può succedere che nel terzo tempo si rovesci il risultato dei primi due.

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Il terzo tempo si modifica a seconda della società, del livello, del periodo. Nel Sei Nazioni è un banchetto: smoking, o giacca e cravatta, comunque divisa ufficiale, squadre separate, discorsi di presidenti e capitani, poi chiacchiere e birra in libertà. Nei campionati è spaghettata e birra, nei tornei è grigliata e birra, nel minirugby è panini e succhi di frutta. Per tutti è, grazie alla partecipazione di soci, appassionati e spettatori, un’opportunità per rimpinguare le anoressiche casse sociali e promuovere le vendite di cravatte, maglie, berretti e dintorni, sempre con l’obiettivo di ripagarsi almeno le spese di affitto campo, bollette luce e rimborso allenatori.

 

Ma c’è molto altro. Il terzo tempo è letterario. Quella volta che lo storico club gallese di Neath (maglie nere, e si dice che gli All Blacks si fossero ispirati proprio alle loro) si presentò a Messina per giocare contro la squadretta locale, i giocatori scesero dal pullman, entrarono in campo, quello dell’Arsenale, constatarono che c’erano più sassi che erba e si rifiutarono di giocare. I messinesi prima li pregarono, poi li implorarono, infine si prostrarono, ma invano: c’era un limite a tutto, anche per i più forti rugbisti collaudati nel lavoro in miniera. I messinesi, per salvare la faccia e l’onore, chiesero di disputare almeno il terzo tempo. I giocatori del Neath si lasciarono convincere facilmente e accettarono. Pare che, nella circostanza, i messinesi si superarono e vinsero il terzo tempo.

 

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Quella volta che, Coppa del mondo 2007, si affrontarono gli All Blacks, cioè la squadra che vince anche quando perde, e il Portogallo, l’ultima delle 20 formazioni qualificate per le finali e composta da dilettanti che hanno ottenuto l’aspettativa, sul campo il risultato fu impietoso, 108-13 (ma i portoghesi segnarono una storica meta), non c’era tempo per il banchetto ufficiale perché il calendario imponeva partite a ritmo serrato e i ritiri delle due squadre erano lontani rispetto al luogo del match, lo Stade de Gerland a Lione, così si organizzò qualcosa spontaneamente perché la tradizione non venisse interrotta: gli All Blacks si munirono ciascuno di due boccali di birra, uno per sé e l’altro per il diretto avversario, bussarono ed entrarono nello spogliatoio dei portoghesi, e insieme festeggiarono l’incontro.

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Quella volta che in un Cinque Nazioni, a Parigi, dopo Francia-Inghilterra, ai giocatori inglesi vennero regalate bottigliette di dopobarba. Alcuni di loro svuotarono il contenuto originario e riempirono la bottiglietta di acqua, poi sfidarono il pilone Colin Smart (i piloni sono i due giocatori esterni della prima linea: grandi, grossi e – si tramanda – ignoranti). Vinceva il primo che mandava giù tutto. Smart era competitivo, non certo il tipo da tirarsi indietro, pronti-via tracannò e stravinse, poi ebbe un attimo di smarrimento e molti di euforia, ebbrezza, ubriachezza, alterazione, e finì la giornata in ospedale.

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Quella volta che in un Cinque Nazioni, a Parigi, dopo Francia-Galles, si ritrovarono i due giocatori simbolo, Jean-Pierre Rives e Gareth Edwards. Rives – caso rarissimo – astemio, Gareth no. Ma quella sera Rives fece un’eccezione e ci dette dentro. Risultato: ubriaco. Finché non si trattenne e vomitò. In quel momento, sulla strada, c’erano tre tifosi gallesi, che riconobbero i due rugbisti anche se in “tight” e guardando Rives piegato in due, si congratularono con Gareth: “Avremo anche perduto la partita, ma nel bere li abbiamo dominati”.

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