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Il male fisico delle partite di calcio in diretta. Intervista a Gigi Riva

Massimiliano Vitelli

Il Cagliari e i giri in macchina durante gli infortuni, la Nazionale di Lippi e i non ritiri di Scopigno, fino a quella bottiglia di whisky che lo trasformò in intervistatore di De André. Parla Rombo di Tuono

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Settantacinque anni dei quali sessanta passati nel mondo del pallone. Gigi Riva è la storia del calcio italiano, è il simbolo di quello bello, lontano dai riflettori e vicino alla gente. Nato a Leggiuno, da dove con uno dei suoi formidabili tiri avrebbe potuto spedire il pallone in Svizzera, quello che Gianni Brera soprannominò Rombo di Tuono ha trovato il calore, l’affetto, la gioia, in Sardegna, quando questa non era ancora “patinata” ed era lontanissima dal diventare famosa per l’invasione estiva di yacht da nababbi e per il Billionaire. “Un giorno Scopigno ci disse che non saremmo andati più in ritiro prima delle partite, rimanemmo tutti sorpresi. Poi motivò la decisione affermando che vivere a Cagliari era già come stare in un ritiro permanente. Aveva ragione”.

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Settantacinque anni dei quali sessanta passati nel mondo del pallone. Gigi Riva è la storia del calcio italiano, è il simbolo di quello bello, lontano dai riflettori e vicino alla gente. Nato a Leggiuno, da dove con uno dei suoi formidabili tiri avrebbe potuto spedire il pallone in Svizzera, quello che Gianni Brera soprannominò Rombo di Tuono ha trovato il calore, l’affetto, la gioia, in Sardegna, quando questa non era ancora “patinata” ed era lontanissima dal diventare famosa per l’invasione estiva di yacht da nababbi e per il Billionaire. “Un giorno Scopigno ci disse che non saremmo andati più in ritiro prima delle partite, rimanemmo tutti sorpresi. Poi motivò la decisione affermando che vivere a Cagliari era già come stare in un ritiro permanente. Aveva ragione”.

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Sono passati cinquant’anni da quel titolo nazionale, oggi Riva svela uno dei segreti che portarono quei ragazzi allo scudetto. “Eravamo i più forti, è vero. Ma vincemmo anche perché avevamo un senso di appartenenza fortissimo. Per noi scendere in campo con la maglia rossoblù significava rappresentare tutta quella gente che ci aveva accolto come figli. Giocavamo per loro più che per noi”. E quando per un infortunio o una squalifica, Rombo di Tuono non poteva sudare per dare il suo contributo, era meglio stargli lontano. “Non andavo allo stadio, non ascoltavo la radio. Prendevo la macchina e guidavo senza meta, ero troppo nervoso per stare a contatto con qualcun altro”.

  

 

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Schivo, ombroso, Gigi Riva è in realtà un uomo timido con un carattere forte e dei princìpi mai messi in discussione. “Ho sposato il Cagliari e la Sardegna. Ho avuto in cambio tanto amore. Ogni anno ricevevo offerte importantissime, dalla Juventus, dall’Inter… ma non ho mai pensato di andarmene da qui”. Oggi che il calcio è cambiato, è l’Italia a farlo ancora emozionare come un tempo. “Non riesco a guardare le partite in diretta. Mi passa la fame, mi sento male fisicamente. Allora le registro e poi le vedo quando già so il risultato”.

 

Dal 1990 al 2013 è tornato in Nazionale, prima come dirigente accompagnatore, poi come team manager. “Un periodo bellissimo che porto nel cuore – dice – avevo la possibilità di offrire il mio contributo e questo mi rendeva felice. Tra i giocatori che mi hanno dato maggiori soddisfazioni c’è Roberto Baggio, fantastico in campo e grande uomo fuori”. Tra i tanti ct, invece, nel suo cuore ha un posto particolare Marcello Lippi. “Non solo perché insieme abbiamo vinto il Campionato del Mondo del 2006. Con lui c’era e c’è ancora un feeling particolare, una confidenza che va oltre il lavoro”.

 

Terminata l’avventura in Azzurro, Gigi Riva ha chiuso con gli stadi. “Ne ho visti abbastanza – dice scherzando – ora preferisco restare a casa”. Gli piace l’Atalanta, anche se per paragonarla al suo Cagliari “aspettiamo che vinca lo scudetto” e stima molto Gasperini. “La sua squadra, dopo tanti anni di ottimi investimenti sul mercato, sta ora raccogliendo i frutti di ciò che ha seminato. Vederla giocare è un piacere per chi ama il calcio”. Il Covid-19 lo spaventa più dei rudi difensori che cercavano di rompergli le gambe. “La paura è tanta, ci vuole attenzione. Mi sembra che gli italiani stiano rispettando le regole e questo è un bene. Certo, siamo stati davvero sfortunati a dover affrontare una pandemia. Mai visto nulla del genere in tutta la mia vita”. Per cercare di non pensarci, gli corre in aiuto Fabrizio De André, che spesso ascolta ancora per rilassarsi. “Le sue canzoni erano la colonna sonora delle nostre trasferte. Poi un giorno lo conobbi e diventammo grandi amici”. I destini di due campioni si incontrarono una sera di fine estate. Era il 1969. Riva approfittò di una trasferta del Cagliari in casa della Sampdoria per andare a trovare il cantautore nella sua abitazione. Due taciturni, uno che parlava con i gol, l’altro con le canzoni. Dopo tre parole in croce e lunghi silenzi, De Andrè si alzò e tornò con una bottiglia di whisky. Due bicchieri a testa furono sufficienti, fu Riva a prendere l’iniziativa. “Senza quasi accorgermene iniziai a bombardarlo di domande, per una volta ero io a fare l’intervistare. Così mi raccontò di come nascevano le sue canzoni. Mi spiegò che dormiva di giorno e poi la notte usciva ad ascoltare i rumori della natura. Facemmo l’alba, prima di andare via mi regalò una chitarra, io aprii la borsa e gli diedi la mia maglia”. Un immagine che rievoca lo scambio dei gagliardetti prima dell’inizio di una partita di calcio ed in parte fu così. In fondo, per i rispettivi mondi, erano due capitani.

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