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il foglio sportivo

 I nostri stadi infestati dai fantasmi

Angelo Carotenuto

Il coronafootball sta allargando il solco tra calcio e massa. Il pallone torna élite, il digitale allontana

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Quando eravamo folla, quando eravamo assembramento, ci faceva forse velo tutto questo trasporto, questa dimensione fisica del nostro ruolo di spettatori dello sport, soprattutto del calcio, al punto da non riuscire a cogliere davvero fino in fondo che della nostra passione il calcio forse non sapeva cosa farne. Ora che le partite si tengono nel vuoto e nel silenzio, come una messa senza fedeli a cui distribuire l’ostia consacrata, ci sono termini che hanno assunto un senso nuovo, disvelatore del rapporto tra gli ex-noi frantumati in molti-io e il rito sacro del pallone, immerso nella sua pretesa di conservare uno status di fede anche senza una massa che le stia dietro.

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Quando eravamo folla, quando eravamo assembramento, ci faceva forse velo tutto questo trasporto, questa dimensione fisica del nostro ruolo di spettatori dello sport, soprattutto del calcio, al punto da non riuscire a cogliere davvero fino in fondo che della nostra passione il calcio forse non sapeva cosa farne. Ora che le partite si tengono nel vuoto e nel silenzio, come una messa senza fedeli a cui distribuire l’ostia consacrata, ci sono termini che hanno assunto un senso nuovo, disvelatore del rapporto tra gli ex-noi frantumati in molti-io e il rito sacro del pallone, immerso nella sua pretesa di conservare uno status di fede anche senza una massa che le stia dietro.

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Le porte chiuse, per esempio. Erano un castigo, una riparazione, erano la penitenza per una colpa da espiare. Senza che neppure ci siamo preoccupati di cercare parole differenti, sono ora diventate la cifra naturale di quella condizione così felicemente chiamata di solitudine collettiva sabato scorso da Giovanni Francesio. In Germania e in Inghilterra le definiscono meglio, partite fantasma, cucendo così una condizione a un etimo, risalendo a una radice greca che rimanda tutto al campo semantico dell’illusione, dell’apparenza, della visione generata da una fantasia. Un’immagine falsa, alterata, alla quale anni e anni di narrativa popolare, orale e scritta, hanno aggiunto un’accezione di inquietudine. L’ombra, lo spettro, l’incubo – tutta quella roba dark che conosciamo. Dunque lo sport delle partite a porte chiuse è uno sport fantasma di sé stesso, così mal ridotto da risultare irriconoscibile, come fantasma è un borgo all’improvviso disabitato per una guerra, una catastrofe, un’evacuazione. Come fantasma – il ghost writer – è lo scrittore che si sostituisce all’originale fino a confondere sul campo chi sia che cosa, chi sia l’autore e chi lo spettatore, chi sia reale e chi sia virtuale.

 

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Quando eravamo folla, la bolla era la parola dispregiativa nella quale potevamo accusare i campioni di essersi rinchiusi, distanti da noi comuni mortali per coltivare il loro divismo, la loro extraterritorialità privilegiata, era la loro isola del tesoro sfuggita alla nostra mappa. La bolla era tutto ciò che di sgradevole potevamo pensare dei nostri idoli, era quel che non eravamo noi, noi massa, mentre con un segno ribaltato la pandemia assegna ora alla bolla un valore virtuoso, una sanità, una santità, la sua violazione è colpevolezza, starne fuori adesso è l’extra-norma: lo sport che la cerca e sa conviverci è un modello, come la NBA, come la Champions dello scorso agosto. 

 

E insomma questo siamo diventati, un “di qua” rispetto a un “di là”, con la sensazione che l’abitudine faccia il suo corso e che nessuno degli attori in campo tra poco saprà distinguere cosa sia più normalità, se questo nuovo stato o un ricordo ormai troppo lontano. Qualche segnale arriva già. Ci siamo fatti piacere per esempio l’ascolto televisivo del silenzio, del suono che fa l’impatto del piede sulla palla, quando fino a qualche mese fa s’alzava il volume del sottofondo per sentire il real audio dello Stadium juventino all’ingresso delle squadre in campo o per il coro collettivo dell’Olimpico di Roma sulla voce di Venditti. Erano i tempi in cui si misuravano i decibel del ruggito del San Paolo all’inno della Champions, con compiaciute segnalazioni del fatto che i sismografi all’Osservatorio Vesuviano l’avevano registrato come un terremoto. Roberto Fontanarrosa ambientò l’ultima partita del suo geniale romanzo L’area 18 (66thand2nd in italiano) dentro uno stadio costruito in un vulcano, mentre pochi giorni fa Kingsley Coman, il ragazzo francese del Bayern che ha deciso con un suo gol l’ultima Coppa dei Campioni, ha detto al Daily Mail quanto emozionante sia stato poter sentire intorno a lui il grido dei compagni, mentre in mezzo al boato di uno stadio pieno lui quel grido non l’ha sentito mai.

 

Le conseguenze della pandemia stanno solo allargando quel solco che l’industria del calcio ha progressivamente scavato tra sé, i suoi affari e l’assembramento della massa. Il coronafootball sta finendo il lavoro, sì, perché dilata la presa del potere del partito digitale, quello che ci ha concesso il privilegio di seguire una qualunque partita in qualunque angolo del mondo stando seduti in tram col nostro cellulare in mano, sapendo da quanti metri precisi avesse tirato in porta Stoppelkamp del Paderborn, potendo aggiungere la nostra battuta spiritosa a sei secondi di highlights che qualcun altro in India contemporaneamente lasciava andare nello stesso mare. Solo che poi un nonno al campo, col nipotino il mercoledì, sono anni che all’allenamento non lo lasciano entrare. Il calcio ci ha dato più informazioni in cambio di più distanza. Le partite fantasma sono l’ultimo stadio di una mutazione. Il riflesso economico-sociale di tutto ciò è il ritorno del calcio alle origini, alla platea elitaria per la quale nacque prima che sfuggisse di mano ai suoi creatori, prima che il popolo glielo portasse via. Si paga una scuola calcio per giocare anziché stare in strada, si costruiscono stadi più piccoli in quartieri da gentrificare, ci sono meno gol sulla tv pubblica e molti di più a pagamento, i biglietti del settore ospiti costano (costavano) un macello, i mille ammessi in tribuna in pandemia non sono gli abbonati rimborsati con un voucher ma gli ospiti, gli sponsor, gli amici degli amici. Quando eravamo folla, almeno avevamo quei bei cori triviali per far sapere con schiettezza come la pensavamo.

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