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oggi la sfida contro conte

Pioli, il condottiero che non mostra i muscoli

Giuseppe Pastore

Non ha mai vinto un derby, ma il suo Milan post lockdown è pieno di “prime volte”

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La Juventus di Pirlo. L’Inter di Conte. L’Atalanta di Gasperini. Il Napoli di Gattuso. Il Milan… di Ibrahimovic. Il vascello fantasma rossonero che naviga a fari spenti per i malmostosi mari del campionato, tagliando le nebbie del Covid con il naso aquilino del suo centravanti-totem appollaiato sulla prua, ha un condottiero mediaticamente invisibile che agisce a bassa voce, con la calma, la temperanza e la barba bianca del Captain Phillips di Tom Hanks. In un anno e una settimana che è al Milan, Stefano Pioli non ha mai mostrato i muscoli come il capitano di De Gregori, dritto sul cassero/fuma la pipa e poi andrà a sbattere: un capitano imbecille e dispettoso, disse una volta il Principe in un concerto, che ci insegna a diffidare da tutti i capitani. Nella piscina di squali tigre che è l’attuale calcio italiano, in cui per essere un buon allenatore – per stare alle recentissime parole di Francesco Totti – bisogna nascere fijo de ‘na mignotta, non sentirete mai nessuno parlare male di Stefano Pioli. Un signore, l’elogio più abusato. Un uomo perbene, come i patriarchi di campagna del primo atto di Novecento di Bertolucci (Pioli, parmigiano e cinefilo, apprezzerà la citazione). “Non è uno di quelli che mettono la panna nel ventilatore”, ha scritto Maurizio Crosetti su Repubblica (espressione curiosa).

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La Juventus di Pirlo. L’Inter di Conte. L’Atalanta di Gasperini. Il Napoli di Gattuso. Il Milan… di Ibrahimovic. Il vascello fantasma rossonero che naviga a fari spenti per i malmostosi mari del campionato, tagliando le nebbie del Covid con il naso aquilino del suo centravanti-totem appollaiato sulla prua, ha un condottiero mediaticamente invisibile che agisce a bassa voce, con la calma, la temperanza e la barba bianca del Captain Phillips di Tom Hanks. In un anno e una settimana che è al Milan, Stefano Pioli non ha mai mostrato i muscoli come il capitano di De Gregori, dritto sul cassero/fuma la pipa e poi andrà a sbattere: un capitano imbecille e dispettoso, disse una volta il Principe in un concerto, che ci insegna a diffidare da tutti i capitani. Nella piscina di squali tigre che è l’attuale calcio italiano, in cui per essere un buon allenatore – per stare alle recentissime parole di Francesco Totti – bisogna nascere fijo de ‘na mignotta, non sentirete mai nessuno parlare male di Stefano Pioli. Un signore, l’elogio più abusato. Un uomo perbene, come i patriarchi di campagna del primo atto di Novecento di Bertolucci (Pioli, parmigiano e cinefilo, apprezzerà la citazione). “Non è uno di quelli che mettono la panna nel ventilatore”, ha scritto Maurizio Crosetti su Repubblica (espressione curiosa).

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E però poi c’è il lavoro, il campo di calcio, e qui le etichette si fanno circospette e un po’ scarabocchiate: che allenatore è Stefano Pioli? Un ottimo allenatore, uno di quei superlativi fatti di nulla che si usano quando non si vuol dir niente, perché la verità è che in questi tempi aridi e statistici un giudizio dettagliato di Stefano Pioli allenatore imporrebbe prima di tutto una riflessione sulla sua bacheca vuota: mai nemmeno una promozioncina in serie A, al massimo un titolo Allievi Nazionali con il Bologna nel 2001. E un grosso elefante nella stanza, una grande parola tabù, quella parola per cui l’aria si scalda e dal generale in panchina si pretende il meglio, distillato purissimo di arguzia e strategia militare: il derby. Lasciando fuori dal calcolo le sfide minori lungo la via Emilia, Pioli ha vissuto da allenatore sette derby tra Roma e Milano senza vincerne nessuno: quattro sconfitte e tre pareggi. Ancora peggio: Pioli è stato in vantaggio per 2-0 all’intervallo in tre derby con tre squadre diverse, senza portarne a casa nemmeno uno. Il primo con la Lazio, 11 gennaio 2015, quel periodo in cui Felipe Anderson sembrava Robben: 2-0 a fine primo tempo, poi doppietta di Totti sotto la curva Sud, con annesso memorabile selfie. Pioli: “Partita preparata e interpretata bene, con un pizzico di fortuna avremmo vinto”. Il secondo con l’Inter, 15 aprile 2017, il primo derby cinese a mezzogiorno e mezzo: Candreva-Icardi per il 2-0, poi agonico secondo tempo con affanno, occasioni mancate, cambi sbagliati e pareggio di Zapata al 97’. Pioli: “Abbiamo preso due gol su palla inattiva, ci è mancato davvero poco, un po’ di scaltrezza”. L’ultimo con il Milan, 9 febbraio 2020, il derby in cui Ibrahimovic sembra aver lasciato un ritratto in soffitta a invecchiare al posto suo: 2-0, poi alluvione nerazzurra in cui ogni tiro va dentro, come se Conte avesse pianificato di andare sotto di due gol per moltiplicare l’inevitabile godimento. Pioli: “Dovevamo stare più attenti, è mancato un pizzico di fortuna”.

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A Pioli manca sempre un pizzico di qualcosa. Da parecchie settimane, il milanista aspetta. Questa pausa Nazionali dagli accenti ungarettiani, tempestosa e sospesa, vissuta sulle montagne russe dei tamponi di Ibrahimovic, dello stillicidio di positivi in casa Inter e di un indecifrabile punteggio pieno in classifica ha dilatato l’attesa e l’apnea verso l’appuntamento di stasera alle 18. I giornalisti sembrano più ottimisti dei tifosi stessi, cauti come palombari dopo l’ultima catena di illusioni e delusioni. Scrutano in particolare l’uomo in panchina, che fa di tutto per non farsi notare, eppure da giugno sta infilando numeri mai così rumorosi. A giugno il Milan si era rimesso in moto nell’indifferenza generale, snobbato un po’ dai suoi stessi tifosi, storditi dalle tante clamorose eccezioni di una situazione eccezionale: sì ma fa troppo caldo, sì ma gli stadi vuoti, sì ma ogni tre giorni non è calcio… Fino a non accorgersi del momento in cui è stato riacceso l’interruttore della storia, al minuto 60 di un Milan-Juventus che si era messo nel solito modo, 0-2 Rabiot-Ronaldo, come logica conseguenza delle forze in campo. Invece al 60’ Theo Hernandez vince un contrasto col tenero Bernardeschi e mette in mezzo un pallone che va a sbattere contro l’avambraccio di Bonucci, per inciso il peggior capitano della storia del Milan. Con le nuove interpretazioni del regolamento non sarebbe mai fallo: ma nella pazza estate 2020 i rigori di questo tipo fioccano. In venti minuti lo 0-2 diventa 4-2 e si porta dietro tutta una serie di prime volte: la prima vittoria in carriera di Pioli sulla Juventus, la prima vittoria del Milan contro Sarri in campionato, la prima volta che il Milan segna 4 gol alla Juve dopo 31 anni. Soprattutto, dopo undici sconfitte o eliminazioni consecutive, magari con il brodino avvelenato delle polemiche arbitrali come finta consolazione, le partite contro la Juventus hanno cambiato verso e non vanno più nel solito modo avvilente. E da lì vittorie e gol a valanga, nuove certezze anche oltre la Montagna Sacra di nome Zlatan, per esempio rilucidando l’argenteria Calhanoglu e ridando smalto a Kessié, rigenerando Bennacer che nei primi tre mesi annaspava per coprire quasi da solo duemila metri quadri di centrocampo e dando una qualifica persino al timido Calabria. Il Milan non perde da 19 partite, viaggia a una media di oltre due gol e mezzo con e senza Ibra, è l’unica squadra europea ancora imbattuta post-lockdown nei primi quattro campionati – meglio della Juventus, meglio del Bayern, meglio del Liverpool che ne ha presi 7 dall’Aston Villa.

In un mondo di piranha isterici che sembra provenire da uno di quei film americani pieni di agenti immobiliari, esacerbato dalla congiuntura non esattamente stellare, il Milan è la squadra più giovane del campionato e sembra sinceramente divertirsi. E visto che il sole bacia i belli, ha pure iniziato una promettente relazione con la fortuna, riuscendo a volgere a favore anche gli accidenti del Covid-19 che gli ha tolto di mezzo Ibrahimovic solo per il morbido trittico Crotone-Rio Ave-Spezia (non proprio Inter-Celtic-Roma) e in Europa ha decimato un’avversaria pericolosa come il Besiktas, mettendogli sulla strada i più teneri portoghesi. E a casa loro, in una notte sull’Atlantico uscita da un romanzo gotico, è morto e risorto quattro volte. Chi ha letto 22/11/63 di Stephen King o ha semplicemente visto Lost sa quanto sia difficile cambiare la storia: il passato si mette di traverso, ti intralcia attraverso un incidente d’auto o un rigore contestato, un treno in ritardo o un meteorite o un rimpallo a sfavore. Ma una volta che ci sei riuscito, in capo a uno sforzo sovrumano, potresti essere diventato invincibile. Inter-Milan arriva al punto giusto come l’ultima salita da scollinare per iniziare a fare discorsi di un altro tipo: e come diceva un ambrosiano doc come Manzoni, “qui giace la lepre”. Per sua natura, a Pioli quei discorsi sono sempre stati preclusi da un calcio un po’ classista che crede molto nei predestinati e un po’ meno nei ciclisti che salgono su col loro passo – eppure non mancano gli esempi virtuosi, da Sarri a Gasperini, di tecnici che hanno fatto il salto intorno ai sessant’anni. Cosa manca a Pioli? Il solito pizzico di qualcosa? Il millimetro, il grado centigrado, il decimo di secondo, la folata di vento da acchiappare come il tattico di una barca da regata? L’orologio da non fissare, lo sguardo da sostenere, la decisione da non rimandare? Cos’è, maledizione, che fa vincere i derby?

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