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Il Foglio sportivo

Filosofi e palestra. Platone oggi sarebbe un fighter di MMA

Senza corpi in lotta non c’è pensiero

Mauro Berruto

L’importanza della palestra e l’unità fondamentale tra carne e psiche nel nuovo libro del filosofo-allenatore Regazzoni. Il distanziamento imposto ci sta abbruttendo. Non c’è dialogo se non c’è conflitto

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"Questo è un libro non-accademico che parte dal presupposto, parafrasando Epicuro, che non si è mai né troppo giovani né troppo vecchi per filosofare. E per fare sport. E per allenarsi”. Lo dichiara, con onestà e convinzione, Simone Regazzoni autore de La palestra di Platone. Filosofia come allenamento (Ponte alle Grazie, 2020). Non è un caso, dunque, che la prima cosa che incontrerete sfogliandone le pagine, sarà un disegno: la piantina della palestra di Platone, ad Atene nel IV secondo a.C., luogo che tanti intellettuali e filosofi da scrivania immaginano forse come simbolico, metafisico, immaginario. No, proprio quella palestra, fatta di pietra, di porticati, di sabbia su cui si lotta e ci si prende a pugni e che si sporca di sangue, quella palestra con la sua puzza di sudore, abitata da corpi che escono dagli spogliatoi e incontrano altri corpi, dialogando con alcuni, combattendo con altri, come se quei due gesti fossero in perfetta continuità. Da quella palestra esce un suono melodico, note soffiate negli aulos che danno concentrazione e ritmo agli atleti.

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"Questo è un libro non-accademico che parte dal presupposto, parafrasando Epicuro, che non si è mai né troppo giovani né troppo vecchi per filosofare. E per fare sport. E per allenarsi”. Lo dichiara, con onestà e convinzione, Simone Regazzoni autore de La palestra di Platone. Filosofia come allenamento (Ponte alle Grazie, 2020). Non è un caso, dunque, che la prima cosa che incontrerete sfogliandone le pagine, sarà un disegno: la piantina della palestra di Platone, ad Atene nel IV secondo a.C., luogo che tanti intellettuali e filosofi da scrivania immaginano forse come simbolico, metafisico, immaginario. No, proprio quella palestra, fatta di pietra, di porticati, di sabbia su cui si lotta e ci si prende a pugni e che si sporca di sangue, quella palestra con la sua puzza di sudore, abitata da corpi che escono dagli spogliatoi e incontrano altri corpi, dialogando con alcuni, combattendo con altri, come se quei due gesti fossero in perfetta continuità. Da quella palestra esce un suono melodico, note soffiate negli aulos che danno concentrazione e ritmo agli atleti.

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Attività fisica, filosofia e musica: ecco le condizioni necessarie per realizzare la paidéia, quell’ideale di educazione e formazione globale dell’uomo, quell’approccio pedagogico necessario allo sviluppo etico e spirituale dei giovani al fine di poterli rendere cittadini perfetti, completi, in grado di inserirsi armonicamente nella società. Intelletto e corpo, pensiero e muscoli, meningi e sudore, purezza d’animo e sangue di un combattimento, ecco la ricetta. Perfino i dialoghi, specialità di casa Platone, trovano il loro vero significato nel senso agonistico che li accompagna. Sono combattimenti intellettuali in cui ciascuno cerca di prevalere sull’altro, di immobilizzarlo, di sottometterlo, di inchiodarlo con le spalle a terra. “Gettiamoci come lottatori su questo discorso”, dice Platone nel Filebo. E se poi il dialogo diventa aporetico, ovvero non vede prevalere nessuno o addirittura soccombere Platone stesso, non è che sia venuto male. È solo l’altra faccia della medaglia dell’agone, che ci ricorda che qualche volta si perde e bisogna saperlo fare

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Tutto questo Simone Regazzoni lo definisce “filosofia carnale” che è anche il suo modo di descrivere alla moglie l’oggetto del suo lavoro quando sta iniziando a pensarlo e scriverlo, sommerso da altri libri (ricchissime le note finali) e con i manubri da pesistica che fanno capolino dietro alla scrivania. Filosofia carnale diventa così il titolo del primo capitolo, ciò che si trova passando dalla piantina e poi entrando nella palestra-libro di questo filosofo allievo di Jacques Derrida, con un dottorato in Filosofia presso le Università di Parigi e Genova e atleta di grappling, uno stile di lotta fondata sul possesso della posizione, sulle leve articolari, sulle pressioni dolorose e, ancora, praticante dell’arte marziale coreana Hwa Rang Do. Un atleta-accademico insomma, che dedica il suo lavoro a diffondere un mantra: la filosofia è un fatto di unità psico-fisica

 

Il Platone dipinto da Raffaello nella Scuola di Atene, ovvero quel filosofo come ci è stato sempre raccontato e come lo abbiamo interiorizzato nel nostro immaginario con il dito che punta il cielo e con il volto di Leonardo da Vinci, scende dall’affresco della stanza della Segnatura nei Musei Vaticani e si trasforma, sempre tenendo il Timéo sotto il braccio, nel corpo, nelle spalle larghe, nelle orecchie spaccate “a cavolfiore”, tipiche dei lottatori e dei pugilatori di Olimpia o degli Spartani. Un po’ provocatoriamente Regazzoni va oltre: “Se Platone vivesse oggi” dice “sarebbe un fighter e praticherebbe le MMA” ovvero quelle Mixed Martial Arts diventate improvvisamente e improvvidamente famose nei fatti di cronaca legati all’assassinio di Willy Monteiro, a Colleferro, un mese fa. Il nickname stesso “Platone” (in realtà il filosofo si chiamava Aristocle) è dovuto al suo essere un athletes, un lottatore. Quello è il suo nome di battaglia proprio come “Legionarius” per Alessio Sakara o “Notorius” per Conor McGregor, entrambi atleti delle MMA.

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Platone, il filosofo-fighter. Troppo? Beh, è quello che vuole Regazzoni, il filosofo-allenatore: desidera portare il suo lettore-atleta a confrontarsi con qualcosa di ostico, di spigoloso, di faticoso e che ha a moltissimo a che fare con il riconoscimento e con il superamento dei propri limiti. Nel libro-palestra ci possono entrare tutti, certo, ma poi arriva il momento di accettare le regole di ingaggio: l’amore per il sapere passa necessariamente attraverso la necessità dell’allenamento e della fatica che ne consegue. Anzi, di più. Quella fatica e quello sforzo, non possono soltanto essere accettati: vanno desiderati. La philosophia (l’amore per il sapere) si intreccia indissolubilmente con la philoponia (l’amore per il pónos, lo sforzo, la fatica, perfino il dolore) e questa intersezione è come se fosse un pungolo, una ferita non rimarginata su cui voler mettere sempre un po’ di sale, per ricordarsi che in un mondo che anestetizza, nasconde e rifiuta dolore e fatica, quel senso di nausea e di fastidio ci tiene vivi, fisicamente e intellettualmente.

 

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La triangolazione è continua: da una parte c’è Platone (e, in generale, il pensiero filosofico), dall’altra il Simone Regazzoni atleta, dall’altra ancora il mondo che ci circonda. Non si può non andare con il pensiero al libro di Jonathan Gottschall, Il professore sul ring (Bollati Boringhieri, 2015) dove l’autore prima di scrivere di combattimento lo vuole provare sulla propria pelle, iscrivendosi in una palestra di MMA e finendo a combattere dentro la gabbia ottagonale. Gottschall, insegnante e autore di altri fortunati libri sull’arte dello storytelling, vuole mette se stesso al centro di quell’esperienza per poi poterla raccontare: “Come Fight Club, ma per professori di letteratura”, così lo recensisce The Whashington Post. Se Gottschall prima prende delle botte e poi le descrive,

 

Simone Regazzoni non scinde mai, davvero mai, il suo essere atleta dal suo essere filosofo. In ogni pagina ne sottolinea la necessaria indissolubilità, arrivando perfino a spiegare l’origine del suo amore per la filosofia a causa di una vacanza all’Isola d’Elba, dove si cimentava nella lettura dei dialoghi di Platone alternate a delle lezioni di windsurf, dopo aver visto al cinema Un mercoledì da leoni. Descrive anche l’origine della sua magnetica attrazione per l’allenamento (e il conseguente pónos che se ne accompagna) come una specie di caduta sulla strada di Damasco, ricordando una sera, quando lui adolescente un po’ sovrappeso, venne ipnotizzato da un televisore in bianco e nero che trasmetteva Rocky, il film di Silvester Stallone che, ammettiamolo senza timori, ha cambiato l’adolescenza e un po’ l’esistenza di tanti di noi, rappresentanti della Generazione X.

 

Tom Landry, coach dei Dallas Cowboys, considerato uno dei più leggendari e innovativi coach della NFL, diceva: “Un allenatore è qualcuno che ti dice quello che non vuoi sentire, ti fa vedere quello che non vuoi vedere, in modo che tu possa essere quello che hai sempre saputo di poter diventare”. Parole che potrebbero essere utilizzate esattamente nello stesso modo per descrivere il rapporto fra un filosofo e il suo allievo. Una lotta, un attrito, un conflitto e, insieme, una visione comune immersa dentro a energie che si contrappongono e che qualche volta devono esplodere. Come succede dentro alla gabbia ottagonale delle MMA, quando due atleti vanno alla ricerca del proprio limite, in qualche modo fino a cercare il punto di non ritorno. Regazzoni sostiene con convinzione una tesi, affascinante: è la progressione della cultura occidentale ad aver richiesto la nascita del fenomeno MMA e quella gabbia a forma di ottagono rappresenta un luogo sacro della nostra democrazia.

 

È partendo dal teatro, passando per il cinema e per quel wrestling che ci ricordiamo da giovani, ovvero pura finzione e sceneggiatura, che si arriva, necessariamente, alle MMA. È catarsi allo stato più puro, è la nostra società che ha bisogno in qualche modo di purificarsi e lo fa proprio grazie a quella gabbia ottagonale che diventa presidio di quella tragedia che va in scena, attraverso un realissimo conflitto fra corpi. Così nella dialettica del simbolico, dell’immaginario e del reale, il reale ritorna con forza, chiudendo una specie di cerchio della storia e tornado agli albori del pensiero occidentale, quando tanto i teatri che le palestre erano ritenute indispensabili.

 

Le palestre (e anche i teatri) oggi, stanno drammaticamente chiudendo. La pandemia, fra i tanti effetti collaterali, ha avuto quello di tornare a esaltare quella massa di opinionisti del pensiero che ritiene che l’attività intellettuale sia qualitativamente superiore a quella fisica. Il distanziamento sociale ha imposto una lontananza e una staticità dei corpi che ci sta abbruttendo. E le palestre sono chiuse. Vuote e chiuse. Tutto ciò rappresenta un dialogo interrotto, un filo che si è spezzato. Nel nostro paese il filo che tiene unito il corpo alla mente si è spezzato nel Dopoguerra e nessuno, sul serio, ha voluto mai riannodarlo. Nelle nostre scuole, al netto delle solite fortunate eccezioni, l’educazione fisica è una disciplina che ha una dignità inferiore rispetto alle altre materie. Le nostre scuole non sono pensate per fare sport, per insegnare la cultura del movimento. Era un grande problema prima, è una catastrofe adesso.

 

Rischiamo non solo la chiusura di centinaia, forse migliaia, di società sportive, ma anche la perdita di una generazione intera di ragazzi che dovrebbero costruire il proprio sapere grazie allo studio e all’esercizio del corpo. Il conto da pagare è salatissimo, tanto nel presente quanto nell’accumulo di un debito che lasceremo in carico alle generazioni future. Ecco perché il libro di Simone Regazzoni è una speranza, un manuale per abitare il presente e, certamente, non un esercizio per accademici. D’altronde, come diceva Ludwig Feuerbach: “Solo la verità diventata carne e sangue è verità”.

 

Illustrazione di Sofia Figliè

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