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il foglio sportivo

 La missione quasi compiuta di LeBron nella bolla che non scoppia

Umberto Zapelloni

James prova a vincere il campionato Nba più strano di sempre con la terza squadra diversa. Ma è stata una stagione che non è piaciuta a tutti, ci dice Dan Peterson

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Alla fine la bolla non è scoppiata. Anzi, nonostante gli attacchi di Trump e  la presenza sulla tribuna virtuale di Obama, la Nba Bubble, come verrà ricordata per sempre, è diventata un esempio da seguire. Quella che sta finendo con la finale tra Lakers e Heat, tra Los Angeles e Miami, è la stagione più breve, ma allo stesso tempo più lunga (e più politicizzata) della storia del campionato al suo 74° anno di vita.

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Alla fine la bolla non è scoppiata. Anzi, nonostante gli attacchi di Trump e  la presenza sulla tribuna virtuale di Obama, la Nba Bubble, come verrà ricordata per sempre, è diventata un esempio da seguire. Quella che sta finendo con la finale tra Lakers e Heat, tra Los Angeles e Miami, è la stagione più breve, ma allo stesso tempo più lunga (e più politicizzata) della storia del campionato al suo 74° anno di vita.

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Era cominciato il 22 ottobre dell’anno scorso. Se si arriverà a un’improbabile gara 7, si giocherà fino al 14 ottobre. Quasi un anno. Con in mezzo una sospensione infinita tra l’11 marzo e il 30 luglio per il Coronavirus, più un paio di giorni svuotati di partite per protestare contro il razzismo dopo il caso Blake. “E’ stata probabilmente la cosa più impegnativa che abbia mai vissuto da professionista, sebbene quando siamo venuti qui sapessi quale era l’obiettivo – ha detto LeBron James nei giorni scorsi – Mentirei se ora dicessi che sapevo tutto quello che avremmo vissuto all’interno della bolla, l’impatto che avrebbe avuto sulla mente, sul corpo e su tutto il resto, il prezzo da pagare, perché è stata estremamente dura. Ma sono qui per un motivo e un motivo solo, vincere il campionato. Questo avevo in testa una volta entrato nella bolla e durante la quarantena dei primi giorni. Fin dal mio primo allenamento, il pensiero era: concentrati sulla cosa principale. La cosa principale era finire la stagione e competere per il campionato. Non so nemmeno quanti giorni siano passati. Mi sembrano cinque anni”.

 

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Lakers e Heat non si erano mai affrontate per l’anello. I Lakers di LeBron non giocavano la finale e non la vincevano da quando c’era Kobe Bryant nel 2010; i Miami Heat, di Pat Riley il presidente che ha vinto il campionato da allenatore su entrambe le panchine, non la giocavano dal 2014 e non la vincevano dal 2013, da quando con loro c’era LeBron. Gira e rigira, l’uomo delle finali è ovviamente lui, che potrebbe diventare il terzo giocatore della storia a conquistare il campionato con tre squadre diverse dopo Miami e Cleveland. Gli altri due, Robert Harry e John Salley, non sono esattamente dei fuoriclasse. Sembra che LeBron stia giocando per qualcun altro e non solo per se stesso.

 

E’ un LeBron più ispirato del solito, anche più riflessivo se vogliamo osservare certi dettagli, come quando se ne sta minuti interi con le cuffie addosso a guardare nel vuoto il campo di fronte a sé. È dal 26 gennaio che ha una missione da portare a termine. Si è preso pubblicamente un impegno che allora sembrava impossibile da mantenere, ma che oggi sembra davvero dietro il prossimo canestro. “Raccoglierò io il tuo testimone. Porterò avanti la tua leggenda”, promise nei giorni del dolore di una nazione intera per Kobe Bryant. “Ogni volta che indossi il giallo e il viola, pensi al suo insegnamento, a quello che ha significato per questa squadra in 20 anni – ha spiegato – A ciò che rappresentava, in campo e fuori. A quello che pretendeva dai suoi compagni e da se stesso. Abbiamo delle somiglianze in questo senso. È uno stimolo a vincere, una cosa che non ti fa dormire”. Giocare con il pensiero a Kobe. Giocare per Kobe. Riportare l’anello là dove lui è stato il re assoluto. I Lakers stanno distruggendo la favola dei Miami Heat, la Cinderella arrivata alle Finals, ma nello stesso tempo stanno scrivendo una delle pagine più romantiche e toccanti dello sport. Vincere dopo dieci anni di digiuno proprio nell’anno in cui l’uomo che aveva firmato quel trionfo se ne è andato via per sempre facendo piangere non solo sua moglie Vanessa, ma il mondo intero.

 

Ma che stagione è stata quella nella bolla? Senza pubblico, senza viaggi, senza stress supplementari. Solo basket mattina e sera. Per molti osservatori ha aumentato la qualità del gioco: “Giocare senza trasferte quindi con più tempo per riposarsi e anche trattare certi infortuni ha certamente aiutato –  dice al Foglio Sportivo Dan Peterson, il primo commentatore della Nba alla tv italiana – ma il gioco che si è visto non piace a tutti. A me ad esempio non piace proprio: troppo pick and roll, troppi tiri da tre punti… Potrebbero sistemare tutto in due mosse semplici, ma non lo vogliono fare perché al pubblico americano va bene così. Molti sostengono che si è giocato bene anche per il fatto che non c’erano i tifosi.  Mi spiego. Giocavano solo per l’amore del basket, come sul playground.  Se è così, bene, ma non ne sono sicuro”. Molte partite in effetti si sono trasformate in un tiro al bersaglio. E tanti storcono il naso. “A me piace un gioco più equilibrato, che sfrutti ogni fronte, forse anche perché condizionato dal lavoro svolto per cinque anni insieme a Popovich con gli Spurs: lui era molto critico rispetto all’insistenza del tiro da 3 – ha detto Ettore Messina al Corriere della Sera – Ma per forza di cose mi devo adeguare e così anch’io cerco e sfrutto il canestro che premia con i 3 punti. Mi sbilancio in una previsione: si arriverà ad allontanare la linea dei 3 punti, rendendo l’operazione più difficile”. Inevitabile. “E comunque – aggiunge il nostalgico Peterson – Oggi il talento è troppo diluito, quindi la qualità del gioco soffre.  Una volta, per vincere l’Nba, dovevi avere cinque grandi titolari. Oggi ne bastano  tre”. Per gli amanti del basket sono comunque giorni molto pieni perché se l’Nba sta finendo, c’è l’Eurolega (oltre alla nostra Serie A) che sta cominciando. E qui riparte la discussione. Meglio il basket atletico e velocissimo degli americani o quello europeo? La parola a Dan Peterson: “L’Eurolega ha fatto un ottimo lavoro nel tenere il passo con la Nba che ha allargato le rose e moltiplicato le squadre negli anni. Merito delle leghe europee, dei club, degli allenatori… molto bravi.  L’atletismo nell’Nba è forte.  Le difese asfissianti.  Ma la distanza è meno grande di quanto forse sembra.  Togliamo i due giocatori più forti da qualsiasi squadra Nba: vincerebbero l’Eurolega?  Se i Lakers non avessero LeBron e Davis vincerebbero l’Eurolega?  È tutto da dimostrare e vedere. Vi faccio un esempio: all’ultimo Mondiale con Gregg Popovich in panchina gli Stati Uniti sono arrivati settimi con i giocatori Nba. Prego?  Non c’erano i più forti?  Appunto!”. Mamma butta la pasta che ci sono le Finals. E l’Eurolega. 
Umberto Zapelloni

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