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il foglio sportivo

Gattuso-Pirlo, ossia Sancio Panza e il Piccolo Lord

Il primo frenetico come il diavolo della Tasmania, il secondo impassibile come un bonzo

Giuseppe Pastore

Umiltà vs. arroganza. Juve-Napoli è la sfida tra due amici ancora un po’ prigionieri dei propri personaggi

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Prendiamo l’azione più gloriosa degli ultimi trent’anni di calcio italiano, quella che il 4 luglio 2006 conduce in gol Fabio Grosso al 119° minuto di una semifinale Mondiale. Grosso non riuscirebbe a fare alcunché, se non fosse per il geniale passaggio-laser disegnato sull’erba del Westfalenstadion da Andrea Pirlo, uno di quei gesti tecnici di cui non si parla mai abbastanza, sommersi e oscurati dal rumore di fondo, dall’emozione del momento, dalla nostra predisposizione naturale a concentrarci solo sul tiro e sull’esultanza, mai sull’assist. Mettete in pausa. In quell’inquadratura televisiva, immobile ma frenetica come la Ronda di Notte di Rembrandt, tutto ruota attorno al genio leonardesco di Pirlo, la superiore delle ventidue intelligenze in campo. Di quelle ventidue, l’immagine ne comprende venti: il portiere tedesco Lehmann più diciannove giocatori di movimento.

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Prendiamo l’azione più gloriosa degli ultimi trent’anni di calcio italiano, quella che il 4 luglio 2006 conduce in gol Fabio Grosso al 119° minuto di una semifinale Mondiale. Grosso non riuscirebbe a fare alcunché, se non fosse per il geniale passaggio-laser disegnato sull’erba del Westfalenstadion da Andrea Pirlo, uno di quei gesti tecnici di cui non si parla mai abbastanza, sommersi e oscurati dal rumore di fondo, dall’emozione del momento, dalla nostra predisposizione naturale a concentrarci solo sul tiro e sull’esultanza, mai sull’assist. Mettete in pausa. In quell’inquadratura televisiva, immobile ma frenetica come la Ronda di Notte di Rembrandt, tutto ruota attorno al genio leonardesco di Pirlo, la superiore delle ventidue intelligenze in campo. Di quelle ventidue, l’immagine ne comprende venti: il portiere tedesco Lehmann più diciannove giocatori di movimento.

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Oltre a Buffon, l’unico che manca all’appello è l’uomo deputato a coprire e tappare i buchi – da solo – in caso di malaugurata ripartenza tedesca. L’unico che manca a un appello che tra non più di cinque secondi si trasformerà in festa nazionale è Gennaro Gattuso. E poi non sento la pressione, la schivo, me ne sbatto. Il pomeriggio del 9 luglio 2006 a Berlino ho dormito, poi ho giocato alla PlayStation. La sera ho vinto il Mondiale. (da “Penso quindi gioco”, l’autobiografia di Andrea Pirlo. A proposito, notate i verbi al singolare) Stanotte mi sono addormentato alle sette di mattina, sono andato – e non sto scherzando – ventotto volte in bagno e mi son messo un cubetto di ghiaccio... lascia stare... è stata ‘na roba brutta, ma brutta brutta. (Gennaro Gattuso, 9 luglio 2006). 

 

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Ecco dunque il nadir e lo zenit, l’acqua e l’olio, Brunico e Lampedusa. La notte più importante della carriera vissuta all’opposto, come caricature fumettistiche: Pirlo impassibile come un bonzo, Gattuso frenetico come il diavolo della Tasmania. Che poi non è vero, perché alla centocinquantesima volta che ci è capitato di rivedere su YouTube la roulette finale di Italia-Francia l’abbiamo vista, la sbuffatina di Pirlo dieci secondi prima di tirare il rigore della paura, centrale a mezz’altezza che non si sa mai; e l’abbiamo sentita l’intervista in cui Gattuso spiega lucidamente che era inutile marcare Zidane a uomo, perché non era più un giocatore tanto dinamico e dunque poteva essere ingabbiato anche lavorando di reparto. Il gioco dei personaggi e delle maschere indossate per vent’anni non ci incanta più.

 

 

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Oggi Pirlo e Gattuso sono due allenatori di serie A che progettano di diventare grandi e la stairway to heaven ha per forza da arrampicarsi sugli scalini propagandati da ogni grande manager: l’onestà, la lealtà, la sincerità, senza infingimenti. Il legame tra Andrea e Rino è molto più stretto di quanto vuol far credere la retorica e l’aneddotica da barzellette con cui ci appestiamo da sempre, in cui Gattuso recita la consumata parte del terrone manesco ma di buon cuore, oggetto di scherzi feroci sempre architettati dall’astuto Pirlo. L’estintore svuotato in testa a Gattuso in hotel dopo un inutile Italia-Cipro, citato nella biografia di Pirlo. L’sms mandato a Braida da Pirlo usando il cellulare di Gattuso, in cui in cambio del rinnovo del contratto gli prometteva cose indicibili. La lumaca ingoiata a Milanello da Gattuso per una scommessa con Pirlo in un pomeriggio di pioggia alla vigilia di Milan-Manchester United 2007, passata poi agli archivi come la “partita perfetta” (insomma la lumaca funzionò).

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Invece c’è più verità nelle quattro parole sibilate da Gattuso in tv la sera in cui la Juventus ha annunciato Pirlo allenatore, mentre lui era stato appena eliminato dalla Champions, e piuttosto malamente: “Adesso sono cazzi suoi”. Gattuso non finge mai, è un libro aperto, ha una sincerità da tempi talmente antichi che forse sono esistiti solo nei romanzi d’appendice, sta realizzando il piccolo miracolo di non avere detrattori – forse perché non ha ancora mai nemmeno lottato per lo scudetto. Ha una prudenza da curato di campagna che c’entra poco con il calcio sexy e super-spregiudicato, inesistente nella complessità del mondo reale, che ci piace farci ammannire dagli esperti in tv (del resto, nelle pagine della scena dell’estintore, Pirlo lo descrive confuso e spaurito come don Abbondio nella Notte degli Imbrogli, capitolo VIII dei Promessi Sposi: ha aperto la porta con gli occhi stropicciati, stava già dormendo con la papalina in testa).

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Come giocava, così allena: ossessionato dall’esempio e dalla disciplina, dalla protezione e dalla sicurezza, dal non fare mai il passo più lungo della gamba. Tonali gli telefona per informarlo che al Milan prenderà la sua numero 8 e lui gli risponde con una frase bellissima: “Rimani antico”. Anacoreta del sacrificio e del minimo vantaggio mantenuto fino al 96’, naturalmente soffrendo, passando attraverso pali fatti e subiti, miracoli del portiere, salvataggi sulla linea. Su Twitter splende uno strepitoso account-parodia, Rino Gattuso Bot, che scrive cose che suonerebbero benissimo pronunciate dal vero Gattuso: “In campo devi esser come un cane rognoso che non mangia da un mese devi cavar l’anima all’avversario... mi son scaldato e abbiam preso a pallonate Lozano per un’ora e mezza”. Nemmeno otto gol fatti e zero subiti nelle prime due partite l’hanno reso del tutto convinto che Insigne, Mertens, Lozano e Osimhen possano giocare tutti insieme e al diavolo quel 4-3-3 controllatissimo, facciamo divertire Napoli e per una volta godiamoci lo spettacolo senza urlacci e bestemmie e sguardi grifagni.

 

Sospettoso come un terrone che riceve un regalo, perché a questo mondo nessuno ti regala nulla; forse a Gattuso, ancorato alla concretezza della terra con quattro giri di catena, farebbe bene iniziare a sognare e iniziare a rischiare. Invece, nonostante gli ammonimenti di Gattuso, Pirlo non ha ancora mai davvero pensato: adesso sono cazzi miei. Il calcio gli è sgorgato dai piedi naturale e limpido come acqua sorgiva, tanto che nella carriera da giocatore i suoi principali sforzi tecnici si sono concentrati tuttalpiù nell’apprendere un nuovo modo di calciare le punizioni, ovviamente imparato a meraviglia secondo l’esempio di un maestro brasiliano che in breve tempo ha superato, Juninho Pernambucano, oggi direttore sportivo della squadra che ha eliminato la Juventus dalla scorsa Champions, favorendogli la successione a Sarri.

 

Non vedete l’armonia di ogni cosa che circonda e riguarda Andrea Pirlo? Ha avuto il lusso di poter scegliere dove giocare e rifiutare sdegnosamente chi voleva imporgli un passo di lato, da regista a mezzala. Ha gettato le basi del Milan Meraviglioso e della Juve Invincibile, di superiorità in superiorità, di arroganza in arroganza, di predestinazione in predestinazione. Ha alimentato il proprio mito facendosi crescere una barba che gli è servita, per citare un altro Maestro, per avere più carisma e sintomatico mistero (da bandiera bianca a bandiera bianconera, il passo è stato breve). Come giocava, così vorrebbe allenare: sgabbiandosi dalla noia dei numerini e delle grafiche prepartita, immaginando una Juve per la prima volta dopo anni senza un regista, lui che dei registi è stato il più grande, o con un’arditissima difesa a tre in cui il terzo di destra è un terzino brasiliano, dunque non esattamente il ritratto della fase difensiva. Lanciando Frabotta alla prima partita da allenatore professionista, spostando Cuadrado a sinistra alla seconda, ignorando il buonsenso comune che imporrebbe di togliere un Rabiot già ammonito che sta picchiando come un fabbro da inizio ripresa. Però poi Rabiot viene espulso e mister Pirlo deve accontentarsi del pareggino, e la cosa deve procurargli una noia atavica, esistenzialista, moraviana, la noia che un libero professionista – libero non tanto economicamente quanto moralmente – prova quando si ritrova, per uno scherzo del destino, in fila alle Poste per pagare una bolletta.

 

 

Cosa fa di Sandro Piccinini un grande giornalista? La capacità di creare significato e attenzione in una domanda di dieci parole, senza le prolusioni fluviali di molti suoi colleghi o ex calciatori preoccupati soprattutto di esibire la proprietà di linguaggio: “Andrea, secondo te è più forte la rosa della Juventus o quella dell’Inter?”, gli ha chiesto in calce al 2-2 contro la Roma. Domanda all’apparenza banale ma quanto mai insidiosa, specie se rivolta a un allenatore non ancora in possesso della fantasia dialettica di un Klopp, un Mourinho o anche di uno Spalletti. Certamente non poteva rispondere “l’Inter”, per rispetto della società e dello spogliatoio; ma se avesse risposto banalmente “la Juve”, avrebbe fornito inatteso carburante al già robusto serbatoio di motivazioni dei rivali (e Pirlo l’allenatore dell’Inter lo conosce molto bene). Che fare? Aveva pochi secondi per decidere, una domanda così secca non gli consentiva di prendere tempo: allora ha detto “Non lo so”, la risposta più esatta possibile ma anche la più grigia. Cos’altro avrebbe potuto fare? Scendere nell’arena, abbassarsi al livello dei comuni mortali, buttarla in vacca? Opzioni sconsigliate a un predestinato, che invece un campione di normalità come Gattuso avrebbe sicuramente ponderato.

 

Dunque chi è più libero, Pirlo o Gattuso? Chi si è divertito di più, il Pirlo ritrovatosi di colpo allenatore nel super-appartamento all’attico senza un minuto di anticamera o il Gattuso che per arrivare fino a qui ha superato le fatiche di Ercole del mestieraccio, dal mostro Zamparini a uno spogliatoio senza acqua calda (a Pisa) fino al bislacco Milan dei cinesi? È curioso: tra i due amici ed ex fuoriclasse ora diventati allenatori, quello ancora prigioniero del proprio personaggio sembrerebbe decisamente Rino, grassoccio, barbuto, che ripete con una punta di compiacimento i suoi buffi tormentoni come un comico di terz’ordine (“Ne devo mangiare ancora di pastasciutta!”, e tutti ridono). Invece stai a vedere che è Andrea, l’amico geniale, ingessato nel completo elegante e nelle mille etichette da Piccolo Lord che lo invecchiano e potrebbero avvilirlo: lui che ama le responsabilità e i mille rischi connessi a esse, ma in questo momento storico di luna calante juventina proprio non può pretendere il tempo di sbagliare né soddisfare il bisogno terapeutico di commettere errori, perché bastano due o tre partite andate male che il galeone pirata di Antonio Conte è già a +5 o +6. Sono cazzi tuoi, risuonerà nelle orecchie la voce di quel suo amico, goffo Sancio Panza che invece per il momento ha due punti in più in classifica con la metà degli obblighi e dei doveri, e chiamalo scemo. E domani sera, chissà.

 

Illustrazione di Lorenzo Conti (tutti i diritti riservati)

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