La barba ha trasformato Pirlo in una bandiera della Juventus

Giuseppe Pastore

È grazie al pelo facciale che i bianconeri sono riusciti a cancellare il passato rossonero dell'allenatore che debutterà in panchina contro la Sampdoria

Chiudete gli occhi. Pensate alla prima immagine di Andrea Pirlo che vi viene in mente: in novantanove casi su cento avrà quello sguardo apparentemente pigro e sornione, concentrato di tutta la flemma di cui è imbevuto Andrea Pirlo, ma soprattutto avrà la barba. Giusto? Abbiamo indovinato? Ci torneremo.

  

Se il calcio fosse un esercizio di ragioneria, in queste ore staremmo vivendo l'attesa per la prima Juventus di Igor Tudor, ex difensore dai buoni trascorsi bianconeri e poi passato attraverso esperienze nelle prime divisioni di quattro Paesi diversi (Croazia, Turchia, Grecia e Udinese in Italia): accanto a lui Roberto Baronio, due anni nelle Giovanili della Nazionale, poi tecnico della Primavera di Brescia e Napoli. Invece vivaddio siamo ancora fatti di carne, sangue ed emozioni e dunque nulla di più romantico dell'avventura di Andrea Pirlo, trapezista senza rete che ha iniziato a costruire direttamente dall'attico il grattacielo della propria carriera da allenatore. Visto anche l'avvio poco morbido – Roma e Napoli nelle prime tre giornate prima di lanciarsi da ottobre nel frullatore della Champions tutte le settimane – è possibile che Pirlo rischi di perdere l'equilibrio nelle prime settimane di lavoro: dev'essere per questo che, insieme alla società, si sta indaffarando nel sistemare un robusto materasso per eventuali atterraggi morbidi. Questo materasso si chiama appartenenza, identità, DNA, chiamatelo come volete: l'idea di base è che Andrea Pirlo da giocatore sia stato simbolo, icona, bandiera della FC Juventus.

  

Ora, il fatto curioso e peculiare di quest'operazione è che questa cosa non è del tutto vera, soprattutto non è vera in relazione ai grandi simboli degli ultimi quindici anni di Juventus: Buffon, Chiellini, Bonucci, Barzagli, Marchisio. Tutti loro hanno vinto la totalità o la grande maggioranza dei rispettivi trofei con la maglia bianconera, a differenza di Pirlo. E agli appassionati di storia e di memoria inizia un po' a scocciare la lettura di articoli incompleti e tabelle inesatte, che dimenticano i due scudetti vinti al Milan, fanno diventare “nove anni” le quattro stagioni juventine di Pirlo o enfatizzano la finale di Champions persa nel 2015 (il che crea un involontario effetto comico, visto che parliamo di un club non proprio conosciuto per la sua inesorabilità nelle finali europee). E invece fanno un torto proprio alla magnifica carriera di Pirlo, sorvolando sui suoi cinque trofei internazionali al Milan dove ha giocato per dieci stagioni consecutive, più di Kakà o Shevchenko, due Palloni d'Oro universalmente associati al rossonero.

 

Non solo: contrariamente alla sua carriera al Milan e in Nazionale, in cui è stato elemento cardine per le due Champions e per il Mondiale 2006, alla Juve Pirlo non ha lasciato particolari segni proprio in Champions League, il nervo scoperto della presidenza Agnelli: 25 partite, un solo gol (su punizione contro l'Olympiakos, fase a gironi 2014-15) e numerose prove sotto tono nelle partite decisive, a cominciare dalla palla persa a centrocampo dopo quindici secondi da cui scaturì il fulmineo vantaggio del Bayern Monaco nell'andata del quarto di finale 2013. La discussione non è oziosa, dal momento che proprio questo sembra essere il principale asso nella manica di Pirlo – vista l'inesistenza di un curriculum da tecnico - per ottenere tempo e benevolenza dagli addetti ai lavori: elementi quanto mai necessari a un allenatore esordiente nel calcio-elettroshock di oggi e del tutto negati al suo predecessore.

  

Questa sciatteria statistica si abbina con la pigrizia della nostra informazione sportiva nell'accettare passivamente, per uno dei migliori calciatori italiani di sempre, un soprannome – il Maestro – forgiato all'estero, in Inghilterra, probabilmente sull'onda dell'emozione e dell'ammirazione per la prodezza di Pirlo nel quarto di finale degli Europei 2012, quel rigore a cucchiaio che scavalcò il portiere Hart e invertì il corso della lotteria dei rigori. E poi, dicevamo, la barba. Il vero spartiacque stilistico di Andrea Pirlo, che è diventato icona di look da quando ha riposto il rasoio nell'armadietto. L'ultima sua foto a mento glabro risale all'estate 2012, al termine della prima magnifica stagione con la Juventus di Conte: da lì in avanti è diventato la controfigura molto apprezzata di Ben Affleck in Argo. Dunque Pirlo barbuto uguale Pirlo juventino: forse le amnesie sulla parte più prestigiosa della sua carriera da giocatore sono da imputare alla memoria fotografica, più esercitata di quella numerica.

 

La sfida a cui sarà chiamato da stasera – curiosamente contro Claudio Ranieri, il tecnico più esperto del campionato, 1.281 panchine da professionista, del quale quasi un centinaio alla Juve di cui non si ricorda più nessuno – non sembra meno complicata di quel film.

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