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il foglio sportivo

Perché non sopportiamo Djokovic

Giuseppe Pastore

Bad boy senza esserlo, il tennista numero 1 al mondo le sta sbagliando tutte. La smetta di cercare di essere amato

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Lo odiano tutti, da allora. Per la verità non stava simpatico neanche prima, perlomeno non al cospetto di Roger Federer, l’uomo che ha reso il tennis una disciplina più assimilabile al balletto che all’agonismo (e non lascerà eredi, per fortuna e purtroppo). Lui lo sapeva, e come sempre da almeno dieci anni aveva trasformato all’istante lo svantaggio in vantaggio, senza neanche doverci pensare. Laddove i tennisti normali erano costretti a sforzi sovrumani già solo per trovare l’interruttore nel più nero dei ripostigli, lui era il gruppo elettrogeno che si attiva quando salta la corrente, illumina subito la stanza a giorno e coglie di sorpresa l’avversario che ha appena tagliato i fili. Tutto il Centrale urlava “Roger! Roger!”, e davvero non s’era mai sentita una partecipazione così compatta in una finale di Wimbledon senza britannici in campo. “Ma io”, rivelò alla fine, “quando la folla gridava Roger, sentivo Novak! Novak!”. E come si batte uno così?

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Lo odiano tutti, da allora. Per la verità non stava simpatico neanche prima, perlomeno non al cospetto di Roger Federer, l’uomo che ha reso il tennis una disciplina più assimilabile al balletto che all’agonismo (e non lascerà eredi, per fortuna e purtroppo). Lui lo sapeva, e come sempre da almeno dieci anni aveva trasformato all’istante lo svantaggio in vantaggio, senza neanche doverci pensare. Laddove i tennisti normali erano costretti a sforzi sovrumani già solo per trovare l’interruttore nel più nero dei ripostigli, lui era il gruppo elettrogeno che si attiva quando salta la corrente, illumina subito la stanza a giorno e coglie di sorpresa l’avversario che ha appena tagliato i fili. Tutto il Centrale urlava “Roger! Roger!”, e davvero non s’era mai sentita una partecipazione così compatta in una finale di Wimbledon senza britannici in campo. “Ma io”, rivelò alla fine, “quando la folla gridava Roger, sentivo Novak! Novak!”. E come si batte uno così?

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Col senno di poi, la risposta è facilissima: Novak Djokovic si batte da solo. Non nel modo tradizionale che attiene al gioco del tennis, tant’è che nel 2020, tutte le volte che le sue partite si sono concluse con la tradizionale stretta di mano a bordo campo, Nole ne ha vinte ventisei su ventisei. Dunque Djokovic continuerà a essere ingiocabile per i suoi colleghi ma è diventato improvvisamente giocabilissimo dai suoi demoni interiori, affiorati in superficie già nel 2017-2018 quando si era ritrovato di colpo a perdere contro Istomin, Chung, Klizan, Taro Daniel, tra problemi al gomito e presunti accidenti coniugali (sempre smentiti) che l’avrebbero anche potuto rendere umano, se non fosse che  il modo di perdere di Djokovic non aveva nulla di affascinante o autodistruttivo: mollava dopo primi turni indecorosi a suon di pallate stracche in mezzo alla rete senza un grammo del fascino del perdente di successo. D’altra parte il codice di Djokovic è cerebrale e invisibile, compilato da una forza mentale inesplicabile e assai vicina all’esattezza di un algoritmo. Il suo gioco ha sempre camminato su quel crinale sottilissimo che separa il superuomo da quel tizio che si incollò due ali di cera per provare a volare fino al sole. Abbandonato dalla sua testa, Djokovic valeva improvvisamente il numero 70 del mondo, e i carneadi che aveva incontrato in quei mesi si divertivano a infierire sul suo simulacro, come le vecchie vittime di Alex De Large quando lo ritrovavano, spaurito e inoffensivo, uscito dal carcere e terrorizzato da Beethoven.

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Ora sarebbe ridicolo parlare di “crisi” per un giocatore che vinto sul campo 26 partite su 26; ma da queste parti si fa fatica a credere al caso, e dunque non è un caso che Djokovic sia incappato proprio adesso nella gaffe più fantozziana della sua carriera scandita da migliaia di palline obbedienti alla sua volontà di farle atterrare sulle righe dei campi di tutto il mondo. Riepilogo per i distratti: le dichiarazioni infelici sul vaccino anti-Covid in diretta Instagram con l’amico immobiliarista Chervin Jafarieh che si era spinto a dire che “la pandemia è un periodo eccitante”; la sciagurata idea di patrocinare un torneo d’esibizione a Belgrado a metà giugno, con tanto di video in discoteca a torso nudo senza mascherina; l’ovvia positività al Covid-19 pochi giorni dopo; il tentativo di fronda nell’ATP insieme a Pospisil (finora l’unico a esporsi pubblicamente) e Isner per fondare un’associazione parallela che dia maggiori poteri ai giocatori; infine, un colpo di oggettiva sfortuna ai danni di una giudice di linea di mezza età, colpita involontariamente alla gola da una pallatina di frustrazione scagliata verso i teloni dopo aver subito un break dallo spagnolo Carreno Busta – e però, se sei uno dei primi tre tennisti al mondo, dovresti prevedere in anticipo le conseguenze e la traiettoria di quella pallina.

 

Così finalmente il vaso di Pandora ha potuto scoperchiarsi e l’antipatia di/verso Djokovic è potuta tracimare senza pietà in questi bassi tempi dove la gente non aspetta altro che un passo falso per crocifiggere l’uomo in errore, meglio se con la distanza di sicurezza di un monitor o di un display. Perciò ecco il paradosso di Novak: ci fosse sugli spalti un pubblico a fischiarlo sonoramente per le sue malefatte, lui ne trarrebbe infinita forza e giovamento come quella volta sul Centrale di Wimbledon; di tutto quell’odio saprebbe benissimo cosa farsene, e naturalmente – nell’insofferenza sempre più marcata degli appassionati – continuerebbe a vincere. Ma le rigidissime norme sanitarie hanno trasformato i campi da tennis in acquari e Djokovic, piranha a sangue gelido, non ha nessuna giugulare da azzannare. E così, costretto dai casi della vita a improvvisare un personaggio fuori copione, privo di punti di riferimento, torna fuori il Djokovic insicuro, pasticcione, goffo persino nelle celebrazioni: riguardatevi l’inguardabile spettacolino post-vittoria di Cincinnati, quando ha inscenato la sua classica esultanza – le mani che partono dal cuore e si allargano verso i quattro lati degli spalti – di fronte a spianate di seggiolini vuoti e scalini deserti. Immaginatevi il più grande degli attori recitare l’Amleto in simili condizioni: persino Laurence Olivier, in un teatro vuoto, risulterebbe ridicolo in calzamaglia con un teschio in mano.

 

Dopo un mese di faticoso ritorno all’agonismo, non è ancora chiaro se l’assenza di pubblico stia influenzando in qualche modo il tennis, per definizione sport cerebrale e mentalmente devastante. Sicuramente sta confondendo Djokovic, che ha bisogno di rumore per essere Djokovic. Ha bisogno di ruggiti, pro o contro fa lo stesso, tanto lui li volgerà immediatamente a favore; ma il silenzio lo fa pensare all’indifferenza e al disinteresse nei suoi confronti, la cosa che teme più in assoluto. Recentemente lo hanno detto in tanti, da quel badass di Nick Kyrgios che parla e agisce come se fosse il numero 38 al mondo (e in effetti lo è) – “Vuole essere Federer, ha l’ossessione malata di voler essere amato a tutti i costi” – a Todd Woodbridge: “E’ geloso dei boati del pubblico per i punti dei suoi avversari, vorrebbe boati ancora maggiori per sé. È come se non lasciasse le persone libere di amarlo, come se andasse a caccia del loro amore”. L’amore non corrisposto, o peggio ancora del tutto ignorato come pare a Djokovic in questo periodo di bonaccia, ci fa agire d’impulso, ci fa compiere inconsulti come tirare una pallata a una giudice di linea, ci fa irrimediabilmente sbagliare.

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Non siamo nessuno per dare suggerimenti tennistici al tennista più forte del mondo, ma qualche consiglio della nonna sì. Fattene una ragione. Smettila di fare discutibili apparizioni pubbliche con un cartello al collo con su scritto: amatemi. Non sarai mai Federer, questo è vero, ma se è per questo nemmeno Federer sarà mai Djokovic. Razionalizza. Pensa che il motivo di tutto questo malanimo sta in una serie di numerini che andiamo qui a elencare, nudi e spietati, direttamente dalla maledetta e benedetta finale di Wimbledon 2019: Federer aveva vinto più game (36 a 32), aveva ottenuto più punti (218 a 204), più ace, meno doppi falli, più break, più punti a rete, una percentuale più alta di punti vinti sia sulla prima che sulla seconda, persino più punti vinti in risposta rispetto a colui che detiene la miglior risposta della storia del tennis. E aveva perso. Crògiolati nella solitudine dei numeri primi, non cercare di essere capito, stimato, apprezzato. Non cercare l’affetto a tutti i costi, torna freddo, spietato, chirurgico, lo squalo di sempre. E sarai di nuovo amato. In amore vince chi fugge.

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