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Ferrari, bisogna cambiare tutto

Umberto Zapelloni

Nel weekend di Monza alla Rossa servono un miracolo in pista e una rivoluzione tecnica. O sarà sempre peggio

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Quando si avvicinava il Gran Premio d’Italia, Enzo Ferrari diventava intrattabile. Cominciava a pensarci mesi prima, come ricorda suo figlio Piero: “Monza si corre a settembre e mio padre incominciava ad aprile maggio a chiedere: per Monza che motore abbiamo? Che cosa facciamo di speciale per Monza? Investiva sempre per il GP d’Italia, era la gara in cui voleva dimostrare di essere competitivo e voleva cercare di vincere”. Per Enzo Ferrari, va ricordato, il secondo era il primo degli ultimi. Per la Ferrari che a Monza correrà il 999° Gran Premio della sua storia, un secondo posto oggi come oggi è un miraggio tale e quale a una vittoria. Non basteranno gli assetti studiati per una pista in cui si sfioreranno i 360 orari e il divieto di usare il “party mode”, ossia le mappature speciali da qualifica, per riportarla in vita.

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Quando si avvicinava il Gran Premio d’Italia, Enzo Ferrari diventava intrattabile. Cominciava a pensarci mesi prima, come ricorda suo figlio Piero: “Monza si corre a settembre e mio padre incominciava ad aprile maggio a chiedere: per Monza che motore abbiamo? Che cosa facciamo di speciale per Monza? Investiva sempre per il GP d’Italia, era la gara in cui voleva dimostrare di essere competitivo e voleva cercare di vincere”. Per Enzo Ferrari, va ricordato, il secondo era il primo degli ultimi. Per la Ferrari che a Monza correrà il 999° Gran Premio della sua storia, un secondo posto oggi come oggi è un miraggio tale e quale a una vittoria. Non basteranno gli assetti studiati per una pista in cui si sfioreranno i 360 orari e il divieto di usare il “party mode”, ossia le mappature speciali da qualifica, per riportarla in vita.

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Nella storia del GP d’Italia, arrivato alla sua 91esima edizione, raramente c’era stata una Ferrari messa così male alla vigilia. Una Ferrari doppiata, umiliata, fuori dai punti, una Ferrari in zona retrocessione per usare una metafora calcistica. Il fondatore diceva spesso “Se lo puoi sognare, lo puoi fare”. Questa Ferrari però è stata privata anche dei sogni. Li ha rimandati al 2022, come ha detto il responsabile della squadra corse Mattia Binotto, ricevendo pure l’appoggio del presidente proprietario, John Elkann. Nella storia della Ferrari l’unico presidente proprietario prima di Elkann era stato il fondatore. “Non sono solo, ve lo posso assicurare – ha detto Binotto al Corriere della Sera – Con Louis Camilleri mi sento più volte al giorno, con il presidente John Elkann regolarmente. Ricevo i loro consigli, sicuramente il loro stile di leadership è diverso da quello a cui eravamo abituati in passato. Ma non sono solo, proprio no”. Meglio solo che male accompagnato, verrebbe da dire. Todt poteva confrontarsi con Ross Brawn, Rory Byrne, Paolo Martinelli, Stefano Domenicali e con un presidente che anni prima aveva fatto il suo lavoro. Binotto non è solo, ma l’impressione è che in certe discussioni è come se lo fosse.

   

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Quando John Elkann ha preso in mano la presidenza si è respirata un po’ d’aria antica. I pensieri sono corsi a Enzo Ferrari e poi a Gianni Agnelli che a quel nipote lungo lungo aveva insegnato a guidare una Ferrari nel garage di casa quando era ancora un ragazzino. John e Lapo si sedevano sulle Ferrari del nonno chiuse in garage e cominciavano a sgasare. Era un modo per trasmettere una passione. E John quella passione l’ha ereditata, la Ferrari ha cominciato ad amarla e poi a guidarla davvero. Dopo due anni di presidenza, con le azioni che continuano a correre e i mercati che hanno comprato più di 10mila auto, sarebbe però arrivato il momento di fare un bilancio. E se quel bilancio lo leggiamo con gli occhi di Sergio Marchionne non possiamo che definirlo deficitario, anche perché, come ha detto lo stesso Binotto, “siamo la scuderia che sta investendo di più”. Per il vecchio presidente bisognava vincere in pista, non bastava presentare risultati economici fantastici. Fu con quella motivazione che mise alla porta Montezemolo. Oggi la Ferrari non guarda alla prossima gara e neppure al prossimo anno, ma guarda al 2022 per tornare a sognare. Un anno dopo il trionfo di Spa, di Monza e poi di Singapore è caduta in una crisi che è molto peggio della tempesta. Una crisi che ha radici antiche, perché anche Montezemolo, che molti ferraristi vorrebbero santificare, ha avuto le sue colpe come ha ammesso. Aver accettato supinamente il passaggio ai motori ibridi, sottovalutando il know-how Mercedes è stato il peccato originale. Poi ne sono stati commessi altri fino al pasticcio sui motori dello scorso anno, con l’aggravante di talenti che negli anni sono stati messi alla porta senza essere rimpiazzati in virtù dell’organizzazione orizzontale voluta da Marchionne e oggi fortunatamente rinnegata. Se la Ferrari non vince il Mondiale dal 2007 non c’è un colpevole solo, c’è un concorso di colpe con la consapevolezza che almeno per anni si usciva dai giochi all’ultima gara del campionato, mentre negli ultimi tempi si esce alle prove pre-stagionali.

  

Ma oggi più che trovare i colpevoli è indispensabile trovare delle soluzioni. Il presidente deve capire che, avendo lui mille impegni, dovrebbe affidare l’azienda a un amministratore delegato che conosca la materia, ossia le automobili e le corse. La Ferrari è un’azienda speciale che deve trasmettere emozioni, non semplici dati di bilancio. Vendere auto che costano come appartamenti sta diventando sempre più complicato anche perché non ci si accontenta più di venderne 7/8 mila. E vincere in pista è sempre stato complicato. Basta rileggersi la vita di Enzo Ferrari per capirlo. Competenza e passione sono la benzina necessaria, ma non sufficiente. Ci vuole anche una squadra unita, che segua il timoniere remando nella stessa direzione. Alla proprietà sembra non mancare la pazienza ed è strano, vedendo come si è comportata con Sarri alla Juventus. La Ferrari non ha neppure vinto il campionato, sta retrocedendo, ma le si permette di risolvere tutto con una rivoluzione soft che assomiglia tanto a un inutile rimpasto di governo. Non è cambiando le mansioni sui biglietti da visita che si può uscire dalla tempesta, come la chiama Binotto. Bisogna cancellare i veleni interni, quelli che solo Todt era riuscito ad azzerare. Vanno riallestiti galleria del vento e simulatore. Serve tornare sul mercato aprendosi ai tecnici in arrivo da altri team per acquisire conoscenze indispensabili per tornare a vincere. L’unica cosa da non cambiare sono i piloti. Almeno lì è stata fatta la scelta giusta, anche se mettere tutta questa pressione su Leclerc è un’operazione ad altissimo rischio con una monoposto che non funziona. Perché ormai è chiaro che la mancanza di prestazioni non è da addebitare solo ai 60/70 cavalli persi con il motore, ma che esiste un profondo problema di telaio e aerodinamica. Tutto questo alla vigilia di Monza e a una settimana dal millesimo Gran Premio della storia. Se lassù c’è ancora qualcuno che ama la Ferrari sappia che serve un miracolo. Come quello del 1998 quando Monza si colorò di rosso nella prima gara del dopo Ferrari.

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