Andrea Agassi nel giorno del suo addio al tennis (foto Ansa)

Agassi, il tennista sconfitto dalle vittorie

Luca Roberto

Quattordici anni fa agli Us Open si ritirava il grande campione americano. Quelle lacrime e il corpo a corpo con uno sport che l'ha sempre fatto soffrire

Quando va a rispondere per prolungare di qualche minuto la partita che porrà fine a una carriera ventennale, Andre Agassi è già un fazzoletto imbevuto nelle lacrime. Guadagna l'incrocio sinistro del campo con gli occhi gonfi, il respiro spezzato, e i 23mila dell'Artur Ashe gli stanno già tributando un applauso ritmato che resta sospeso a metà tra l'incoraggiamento e il congedo cerimonioso. Neanche il tempo di mettersi due metri dietro la riga di fondo campo, le gambe disposte a molla, ad aspettare la fine, che Becker gli serve centrale a più di 200 chilometri orari. 

 

 

L'epilogo su un campo da tennis il campione americano lo fa a testa china per andare a stringere la mano all'avversario, dopo non aver potuto nemmeno colpire con una stecca simbolica l'ultimo punto della sua vita. Rileggendo quell'istante con gli occhi di oggi, sembra la rivalsa beffarda di uno sport che gli ha regalato tanti successi professionali quante insofferenze e devastazioni nell'intimo.

 

E di fatti, quando prende parola per ringraziare i tifosi e urlargli commosso che sono stati “un'ispirazione nella sua vita” e “una spalla su cui appoggiarmi”, sembra quasi voler dire: presto saprete perché questo sport, che voi credete mi abbia reso un re, in realtà ha finito con lo scavarmi dentro un vuoto che sarà difficile riempire adesso. Con il mangiarmi a mano a mano un bel pezzo di vita. 

 

 

Il ritiro del rivale di sempre era stato molto diverso: l'ultima partita di Pete Sampras, sempre agli Us Open e contro di lui, si è scoperta essere stata tale solo a distanza di un anno: ha preferito il graduale allontanamento dalla scena per vaporizzare gli anni sotto i riflettori. Lo stesso John McEnroe aveva optato per la conclusione della stagione solo dopo la Coppa Davis del '92. Lui no, il ragazzino di Las Vegas che aveva cominciato con la bandana e la chioma folta fin sopra le spalle e finiva senza nemmeno un pelo sul capo, sin dall'esordio a Wimbledon, dove il tabellone gli riservò un onorevole sconfitta contro Rafa Nadal al terzo turno, aveva annunciato che gli Us Open sarebbero stati l'ultimo appuntamento, il sipario prescelto.

 

E quindi, dopo le non esaltanti vittorie ai danni di Andrei Pavel e Marcos Baghdatis nei primi due turni, auscultando l'eco di un paradosso gli organizzatori lo avevano piazzato nello stadio di tennis più popolato al mondo, sapendo che Agassi vs B. Becker sarebbe stata in ogni caso una partita in grado di catturare l'attenzione dei palinsesti televisivi. Solo che quel Becker non era Boris, bensì Benjamin, gregario tedesco numero 112 al mondo noto ai più per un gioco senza infamia né lode: solo molta buona volontà e un servizio solido. “Non avrei mai voluta vincerla, quella partita. Mettere fine alla sua carriera mi ha turbato, mi sono sentito male”, ha detto in un'intervista lo scorso aprile, interpellato per festeggiare i 50 anni di Agassi. 

 

 

Tutte le informazioni di contorno sono note: il fidanzamento negli anni 90 con Barbara Streisand, 28 anni più grande di lui, il matrimonio con Steffi Graff, che gli ricordava costantemente chi portasse i pantaloni in famiglia (22 titoli slam in singolare contro 8). I conti con il vuoto che il ritiro aveva prodotto e il grande buco nero che c'è stato prima. Del resto, come ebbe a rimuginare poco dopo aver conquistato il suo primo Wimbledon, “vincere non cambia niente. Adesso che ho vinto uno slam, so qualcosa che a pochissimi al mondo è concesso sapere. Una vittoria non è così piacevole quant’è dolorosa una sconfitta. E ciò che provi dopo aver vinto non dura altrettanto a lungo. Nemmeno lontanamente”. Il pianto di quel giorno del 2006, quasi di liberazione e gratitudine, sta lì a dimostrarlo.

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