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Negli Stati Uniti lo sport si ferma per Jacob Blake

Stefano Pistolini

La protesta dei campioni americani in sostegno del Black Lives Matter risveglia l'attenzione del grande pubblico. Ora scenderanno subito in campo tutti

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Non è un gran momento in America, per usare un eufemismo. Mentre le strade di notte s’infiammano di proteste a macchia di leopardo, le micce continuano a brillare con cadenzati episodi di violenza tra polizie e afroamericani e la convention repubblicana ha esposto con chiarezza che “Legge e ordine” – ovvero paura & repressione e soprattutto “divisione” – sono gli imperativi e gli slogan di una campagna di cui s’intuisce un insperato recupero, l’affare, semplicemente, s’ingrossa. Scendono in campo i campioni sportivi, i miliardari professionisti, in larghissima maggioranza neri, che sono il culto, il passatempo, l’oggetto del desiderio e della passione della maggioranza degli americani. Ha cominciato l’Nba, poi si sono unite le sorelle della WNba, la lega “pro” femminile e ora arrivano a ingrossare la protesta gli atleti del baseball, lo sport più tradizionale e tradizionalista, prediletto dalla base conservatrice del paese, e del soccer, la disciplina degli immigrati. Si muovono gli atleti e sussultano le franchigie, ovvero i club, e poi addirittura le leghe.

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Non è un gran momento in America, per usare un eufemismo. Mentre le strade di notte s’infiammano di proteste a macchia di leopardo, le micce continuano a brillare con cadenzati episodi di violenza tra polizie e afroamericani e la convention repubblicana ha esposto con chiarezza che “Legge e ordine” – ovvero paura & repressione e soprattutto “divisione” – sono gli imperativi e gli slogan di una campagna di cui s’intuisce un insperato recupero, l’affare, semplicemente, s’ingrossa. Scendono in campo i campioni sportivi, i miliardari professionisti, in larghissima maggioranza neri, che sono il culto, il passatempo, l’oggetto del desiderio e della passione della maggioranza degli americani. Ha cominciato l’Nba, poi si sono unite le sorelle della WNba, la lega “pro” femminile e ora arrivano a ingrossare la protesta gli atleti del baseball, lo sport più tradizionale e tradizionalista, prediletto dalla base conservatrice del paese, e del soccer, la disciplina degli immigrati. Si muovono gli atleti e sussultano le franchigie, ovvero i club, e poi addirittura le leghe.

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Nell’Nba, il compound più progressista dello sport americano, addirittura la stessa organizzazione centrale ha deciso di sostenere la protesta, legittimandola e inglobandola nella complessa e un bizzarra procedura con la quale si sta tentando di portare a termine l’infinito campionato cominciato nel novembre scorso e ancora in via di svolgimento, dopo l’interruzione-Covid, in quel mondo separato che è la “”bolla”, ovvero una sezione del parco a tema Disney di Orlando, che è stata sigillata con dentro le squadre, gli entourage, gli addetti ai lavori e i campi di gioco, per preservarla dal contagio.

     

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Da subito l’evento, già assurdo e vagamente fantascientifico nel suo assunto (ricordate il primo “Rollerball”?), con quel vuoto pneumatico, gli spettatori digitali, il mondo dentro e il mondo fuori, è stato visto con fastidio dai giocatori. Passare mesi in quell’apartheid forzata non andava a nessuno, tanto più mentre all’esterno la nazione si agitava come un albero nella tempesta. Però alla fine ci sono andati tutti – troppo vincolanti i contratti, troppo irrinunciabile la posizione raggiunta. E da subito, col benestare della lega organizzatrice, le squadre e i singoli, hanno provato a inglobare nell’evento il subbuglio razziale che stava sconvolgendo l’America: Black Lives Matter (Blm) è adesso scritto al centro del campo di ciascuna partita, le magliette degli atleti anziché il nome ostentanto sulla schiena appelli e ammonizioni, e le stelle di questo sport, LeBron James in testa, hanno fatto in modo di ricordare ai fans che, anche se lì si giocavano i playoff, fuori c’erano questioni assai più serie in ballo. E’ George Hill, un veterano al servizio del Milwaukee Bucks, ad aver dato con chiarezza la temperatura della situazione: “Da subito, in tanti abbiamo pensato che non fosse una buona idea quella di ricominciare a giocare in quella maledetta bolla. Che sarebbe stato come indurre a distrazione buona parte degli americani da quanto sta succedendo per le strade dello nostre città. I crimini, gli omicidi, le proteste, il bisogno irrinunciabile di un cambiamento”.

   

In ogni caso si è cominciato e ormai da un mese lo spettacolo va avanti, come altrettanto, fuori dalla bolla, vanno avanti i rallies, i disordini, i nuovi episodi di violenza, la contrapposizione sempre più netta tra attivisti del Blm e posizioni governative progressivamente più intransigenti, in odore di elezioni. Il folle episodio di Konosha, con l’afroamericano Jacob Blake colpito da sette proiettili sparati alla schiena da un poliziotto, mentre cercava di montare sulla sua auto, ha fatto esplodere la contraddizione. I giocatori hanno saputo la notizia, ne hanno discusso e hanno deciso. A cominciare sono stati proprio i Bucks di Milwaukee, città dello stato del Wisconsin, lo stesso dove è avvenuto il fatto di sangue. In barba ai favori del pronostico assegnati loro dai bookmakers, al momento della partita di playoff con Orlando non sono scesi in campo. Non se ne parla. Non si gioca. A un America in queste condizioni di salute, noi non diamo spettacolo. Partita vinta a Orlando? Manco per niente: i Magic della Florida hanno detto “no grazie” e sono rientrati anche loro negli spogliatoi. Poco dopo l’annuncio: altre due partite annullate, forse rinviate, non si sa, il caos si sta impadronendo del campionato. E l’effetto domino è partito: anche i professionisti della mazza da baseball hanno detto “Un momento: fermiamoci. Così non ha senso”. E l’effetto ha preso a propagarsi.

   

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Se c’è un segno palpabile di disordine sociale, nella nazione scandita dallo sport televisivo, è la sospensione dei campionati. Apre voragini nei palinsesti, ma soprattutto risveglia l’attenzione sopita e narcotizzata del grande pubblico. State certi che scenderanno subito in campo tutti, Trump compreso. In un campo diverso da quello di gioco: quello delle giustificazioni, delle imposizioni, della contrapposizione. Della sfida. Della legge e ordine. Contro la quale per adesso ha una forza deflagrante il semplice tweet di Lebron che scrive: “non ne posso più”.  

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Gli sviluppi del giorno dopo questa clamorosa presa di posizione sono contraddittori. In una riunione tra i rappresentanti delle 13 squadre ancora nella bolla per ultimare il campionato, solo due hanno votato in favore della definitiva interruzione dell’evento – le due franchigie di LA, i Lakers e i Clippers. Gli altri, Bucks inclusi, sono favorevoli a continuare, dopo aver licenziato un comunicato dove dicono: “E’ imperativo che la legislatura del Wisconsin adotti misure significative per affrontare le questioni di responsabilità della polizia, brutalità e riforma della giustizia penale. Incoraggiamo i cittadini a informarsi, intraprendere azioni pacifiche e responsabili e a ricordarsi di votare il 3 novembre”. Tra i primi a sostenere l’azione degli atleti – presentata dai media Usa come una delle giornate più importanti nella storia dell’attivismo sportivo – sono stati Barack Obama e Bernie Sanders. Un altro segnale che, con l’approssimarsi del voto, la polarizzazione in America tende irresistibilmente a estremizzarsi.

(articolo aggiornato il 28 agosto)

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