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Paradosso olimpico

Per Roma l'Olimpiade del '60 è stato l'apogeo anziché il trampolino

Chicco Testa

La vittoria di Berruti, il benessere e le nostre prime vacanze. Sessant'anni fa guardavamo alla Capitale con ammirazione e con orgoglio: lì si celebrava l’Italia del boom. Ora aspettiamo i prossimi Giochi, dopo i flop di Rutelli, Monti e Raggi

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Io la finale dei 200 vinta da Livio Berruti il 3 settembre 1960 l’ho vista in un bar di Miramare di Rimini con mio padre. Ricordo perfettamente sul televisore in bianco e nero quel tipo smilzo che correva con gli occhiali e l’urlo della ventina di avventori dopo pochi secondi, a me erano sembrati pochissimi, dalla partenza.

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Io la finale dei 200 vinta da Livio Berruti il 3 settembre 1960 l’ho vista in un bar di Miramare di Rimini con mio padre. Ricordo perfettamente sul televisore in bianco e nero quel tipo smilzo che correva con gli occhiali e l’urlo della ventina di avventori dopo pochi secondi, a me erano sembrati pochissimi, dalla partenza.

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C’erano molte cose che legavano in quel momento Rimini con Roma. A Roma si celebrava la nuova dimensione conquistata dall’Italia in pieno boom economico. Ci presentavamo al mondo non più da poveracci, ma da paese addirittura capace di organizzare un’Olimpiade. E non solo eravamo ospiti amabili, ma vincitori di gare importanti per qualità atletica. A Rimini, allo stesso modo, cominciava l’epopea del turismo romagnolo. Per noi italiani erano le prime vacanze, conseguenza di un benessere appena acquisito. Ma gli alberghi, pochi allora, erano già affollati dagli esponenti di un popolo fino all’altro ieri nemico. I tedeschi, di cui si parlava in quella terra rossa con un linguaggio che intuivo pieno di sottintesi, ma anche  di rispetto. Nei loro portafogli c’era il marco e già allora i buoni stipendi dell’industria tedesca permettevano alla classe operaia della Volkswagen le vacanze nelle pensioncine romagnole. E di fronte a sua maestà il marco tutto il resto passava in secondo piano. La pace degli scambi commerciali seppelliva definitivamente la guerra di quindici anni prima.

   

Insomma a Roma e a Rimini si celebrava in quella fine estate del 1960 la rinascita dell’Italia e tutto sembrava avviato verso un futuro di benessere. Noi giovani ragazzi del profondo nord, ancora relegati a monte del Rubicone, guardavamo a Roma con ammirazione e persino con orgoglio. Credo che Roma non sia mai più stata tanto amata. Paradossalmente quell’Olimpiade è stata il suo apogeo, anziché la pedana utilizzata per spiccare il salto decisivo e divenire la Capitale condivisa. Le città industriali del nord ne hanno subito messo in discussione il primato e il resto è storia. Certo Roma ha poi continuato a crescere, anche grazie agli ammodernamenti portati dalle opere connesse alle Olimpiadi, ma non ha mai più registrato intorno a se quel consenso unanime ed entusiasta.

   

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23 agosto 1960, allo stadio dei Marmi il giorno dell'apertura ufficiale dei giochi Olimpici

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Le Olimpiadi sono tornate molte volte nella storia recente di Roma. Quelle perse da Rutelli, che ci ha provato seriamente, a favore di Atene, quelle messe fra parentesi dall’austero Monti per ragioni di cassa, quelle rifiutate dall’amministrazione Raggi. Queste ultime hanno scatenato molte polemiche. Personalmente considero il rifiuto della Raggi una scelta di saggia ignavia. Lei non lo sa ma il motivo per cui ha detto no è che un saggio folletto le ha consigliato di lasciar perdere. Mai e poi mai la sua amministrazione sarebbe stata capace di mettere in moto la macchina necessaria allo scopo. E avremmo bruciato cinque preziosissimi anni in inutili e futili discussioni. L’occasione si può ripresentare e nel frattempo abbiamo se non altro accumulato esperienza. Anche i più critici rispetto al modello grandi eventi/ grandi opere/ spesa pubblica – per molti versi consegnato al passato – hanno dovuto ricredersi di fronte al successo dell’Expo milanese, che, coronavirus a parte, è stata veramente il trampolino dell’accelerazione milanese. L’Expo è stata una vetrina per l’Italia, ma insieme ha saputo integrarsi con la città, stimolarne gli investimenti privati oltre che pubblici, esplicitarne l’orgoglio e l’identità.

    

Roma deve trovare un suo nuovo scatto di reni per invertire la rotta. Su questo non c’è dubbio. Chi verrà dopo la Raggi – non oso nemmeno immaginare uno scenario diverso – dovrà prima di tutto occuparsi della manutenzione della città. Ma non vorremmo nemmeno morire di noia per altri cinque anni fra le buche e gli autobus dell’Atac. Ci vuole una visione, si dice in questi casi. Magari un’altra Olimpiade potrebbe dare una mano.

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