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Dove rotola la palla

Jack O'Malley

La Champions tedesca e francese, le previsioni sbagliate degli esperti e la bellissima imprevedibilità del calcio

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Più della politica e le pandemie, il calcio ha l’indiscutibile caratteristica di essere imprevedibile, costringe i sedicenti esperti a sbilanciarsi e smentirsi in continuazione. Ma non produce crisi economiche e morti (non sempre), per cui ci si può abbandonare con leggerezza a previsioni e sentenze tanto definitive quanto volatili. Le coppe europee offrono un banco di prova ideale di tutto ciò: ogni anno giornalisti, ex giocatori, analisti tv e maestri di tattica sui social ci spiegano che il vento è cambiato, che inizia l’èra di Tizio e finisce quella di Caio, che il tale mister è un genio e quell’altro un coglione, che il tiki taka tornerà di moda, che le verticalizzazioni sono il futuro ma che il catenaccio è utile. Prendete un anno fa: quattro inglesi finaliste di Champions ed Europa League, ed era tutto un profluvio di previsioni sul dominio della Premier League sul calcio continentale da qui ai prossimi 5-6 anni almeno. La Bundesliga era un campionato “poco allenante” come la Serie A, non parliamo della Ligue 1. Le inglesi corrono di più, giocano di più, nella narrazione calcistica italiana la Premier League era grande e Paolo Di Canio il suo profeta. Adesso che non c’è nemmeno un’inglese in nessuna finale, e i due Manchester sono stati eliminati come dei fessi da squadre più scarse, il calcio inglese è stato ridimensionato, e tutti sono esperti di allenatori tedeschi, Bundesliga e campionato francese. Non prima ovviamente di essere diventati maestri di preparazione atletica: due mesi passati a dire che Lione e PSG, non giocando da marzo, non avrebbero avuto minuti nelle gambe e ora è tutto un “lo vedi che loro corrono e non bisognava ricominciare a giocare?”.

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Più della politica e le pandemie, il calcio ha l’indiscutibile caratteristica di essere imprevedibile, costringe i sedicenti esperti a sbilanciarsi e smentirsi in continuazione. Ma non produce crisi economiche e morti (non sempre), per cui ci si può abbandonare con leggerezza a previsioni e sentenze tanto definitive quanto volatili. Le coppe europee offrono un banco di prova ideale di tutto ciò: ogni anno giornalisti, ex giocatori, analisti tv e maestri di tattica sui social ci spiegano che il vento è cambiato, che inizia l’èra di Tizio e finisce quella di Caio, che il tale mister è un genio e quell’altro un coglione, che il tiki taka tornerà di moda, che le verticalizzazioni sono il futuro ma che il catenaccio è utile. Prendete un anno fa: quattro inglesi finaliste di Champions ed Europa League, ed era tutto un profluvio di previsioni sul dominio della Premier League sul calcio continentale da qui ai prossimi 5-6 anni almeno. La Bundesliga era un campionato “poco allenante” come la Serie A, non parliamo della Ligue 1. Le inglesi corrono di più, giocano di più, nella narrazione calcistica italiana la Premier League era grande e Paolo Di Canio il suo profeta. Adesso che non c’è nemmeno un’inglese in nessuna finale, e i due Manchester sono stati eliminati come dei fessi da squadre più scarse, il calcio inglese è stato ridimensionato, e tutti sono esperti di allenatori tedeschi, Bundesliga e campionato francese. Non prima ovviamente di essere diventati maestri di preparazione atletica: due mesi passati a dire che Lione e PSG, non giocando da marzo, non avrebbero avuto minuti nelle gambe e ora è tutto un “lo vedi che loro corrono e non bisognava ricominciare a giocare?”.

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Il bello del calcio è che se ne frega degli schemi, delle previsioni, dei big data che manco sanno prevedere chi vincerà le elezioni, figurarsi se sanno indovinare un risultato deciso da pochi fottuti centimetri. In semifinale di Champions ci sono quelli che hanno iniziato per primi e quelli che non hanno ricominciato mai, i ricchi e i poveri, e gli stessi analisti che spernacchiavano Garcia quando allenava in Italia ora lo elogiano per il suo sapiente pragmatismo. Ci saranno certamente un redattore dell’Ultimo Uomo, un rubrichista di Undici o un blogger che una volta avevano detto che Tuchel, Flick e Nagelsmann erano bravi, anche se nove giornalisti sportivi su dieci di quelli che ora fanno gli esperti di calcio tedesco su Twitter non li riconoscerebbero nemmeno se li avessero davanti in conferenza stampa. Nella bulimia che tutto travolge Guardiola è già diventato un cretino, di Gasperini nessuno ricorda nemmeno la faccia e Solskjær è tornato un mediocre.

  

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C’è poi il capitolo geopolitica del calcio, una delle puttanate più clamorose dell’ultimo ventennio: troppo attraenti tutte queste francesi e tedesche così avanti in Europa per non fare il paragone europeista sul peso di Francia e Germania (lo scorso anno le quattro inglesi erano raccontate in chiave anti Brexit, of course). Il PSG non è in finale di Champions perché Macron è un figo, ma perché gli sceicchi del Qatar tirano fuori soldi pure quando sono al cesso (ma ho letto importanti analisi social sul fatto che adesso è chiaro che contano il gioco e le idee e non le squadre fatte accumulando campioni, che fa tanto primi anni Duemila). Un anno fa l’allenatore del Tottenham, Pochettino, era il migliore dopo Klopp, adesso è disoccupato e manco la Juventus lo ha voluto. Noi, che saremmo pronti ad accoltellarci al pub con i cocci delle nostre pinte rotte per sostenere la superiorità della nostra squadra su quella dei nostri amici, lo sappiamo bene che il calcio è una cosa serissima. Talmente seria che qualunque sentenza definitiva risulta ridicola.

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