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La Roma merita il salto nel calcio showbiz. Ci riuscirà Dan Friedkin?

Maurizio Crippa

Per luccicare davvero nel calcio globale i giallorossi non possono più misurarsi tra Trigoria e Formello. E' ora di fare bene il lavoro che tutti i romanisti sognano

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Seduto idealmente in cima al moncherino della curva Nord di San Siro, o di quel che ne rimarrà, gran ruina, dopo che Beppe Sala e i padroni foresti di Inter e Milan si saranno accordati sull’edificando nuovo stadio, previo abbattimento del vecchio in nome del business stellare e trasformazione dell’ex Scala del calcio in un parco giochi o shopping center che sia, guardo giù. Verso Roma. Verso le curve basse dell’Olimpico mai troppo amato dalle tifoserie dei diversi colori e che ancora a lungo rimarrà lì. E guardo verso la AS Roma, che nottetempo mercoledì è passata di mano, dall’americano a Roma James Pallotta all’americano a Roma 2.0 Dan Friedkin, 591 milioni debito compreso. Guardo al di là degli Appennini – non proprio fino alle Ande o al Texas del nuovo padrone – e guardo rispettoso, come un non invitato che se ne sta, appunto, sul moncherino della sua curva Nord. E con affetto, senza entrare nel merito: del bilancio dei nove anni della gestione americana 1.0 parleranno i romani e i romanisti. Per alcuni esegeti-tifosi-giornalisti del club giallorosso la presidenza Pallotta non è stata delle peggiori; per altrettanti peggio di una sciagura o un’alluvione o il Sacco di Roma. Non lo so. Quel che so, e guardo con simpatia, è che così come Totti è un patrimonio nazionale, da tutelare all’Unesco (Totti che ieri mattina al sito del Foglio diceva: “Era ora”) così anche la AS Roma, e il calcio della Capitale in quanto tale, è un patrimonio italiano da far lievitare, da trasformare.

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Seduto idealmente in cima al moncherino della curva Nord di San Siro, o di quel che ne rimarrà, gran ruina, dopo che Beppe Sala e i padroni foresti di Inter e Milan si saranno accordati sull’edificando nuovo stadio, previo abbattimento del vecchio in nome del business stellare e trasformazione dell’ex Scala del calcio in un parco giochi o shopping center che sia, guardo giù. Verso Roma. Verso le curve basse dell’Olimpico mai troppo amato dalle tifoserie dei diversi colori e che ancora a lungo rimarrà lì. E guardo verso la AS Roma, che nottetempo mercoledì è passata di mano, dall’americano a Roma James Pallotta all’americano a Roma 2.0 Dan Friedkin, 591 milioni debito compreso. Guardo al di là degli Appennini – non proprio fino alle Ande o al Texas del nuovo padrone – e guardo rispettoso, come un non invitato che se ne sta, appunto, sul moncherino della sua curva Nord. E con affetto, senza entrare nel merito: del bilancio dei nove anni della gestione americana 1.0 parleranno i romani e i romanisti. Per alcuni esegeti-tifosi-giornalisti del club giallorosso la presidenza Pallotta non è stata delle peggiori; per altrettanti peggio di una sciagura o un’alluvione o il Sacco di Roma. Non lo so. Quel che so, e guardo con simpatia, è che così come Totti è un patrimonio nazionale, da tutelare all’Unesco (Totti che ieri mattina al sito del Foglio diceva: “Era ora”) così anche la AS Roma, e il calcio della Capitale in quanto tale, è un patrimonio italiano da far lievitare, da trasformare.

   

Per Dan Friedkin, uomo d’aziende e outlook sullo showbusiness, la Roma vale perché è “società iconica”. E certo lo è. Ma per farla luccicare davvero, nel calcio globale e che non può più misurarsi tra Trigoria e Formello, occorre non solo che la nuova proprietà faccia bene il lavoro che tutti i romanisti sognano. Occorre che tutta la città faccia la sua parte. Nella gestione Pallotta, al netto di tutti i su e giù di finanza e mercati e calciomercati, la stella polare fu dare solidità e ciccia e prospettiva d’investimento al club: il nuovo stadio, insomma. Si sa che costruire a Roma non è mai una passeggiata, ma sfortuna volle che Pallotta si trovasse a un certo punto tra i piedi la giunta Raggi: l’ideologia anti stadio, anti strade, anti Olimpiadi e forse persino anti derby tipica dei grillini. Il progetto s’impantanò, manco ci fosse da trasformare il Colosseo in un resort, gli interessati provarono la via dritta e forse anche qualche scorciatoia. Ma l’Olimpico sta ancora lì. E con lui l’impossibilità, questa sì iconica, di un salto di categoria aziendale, di un ingresso stabile nei range alti della Uefa. Una lunga impasse storica. Per dire: Torino è il fulgido regno degli Agnelli, Milano ci sta provando, pure Bergamo c’è riuscita (ha uno stadio di proprietà) e Napoli è regno autonomo delle Due Sicilie. E Roma, e la Roma? E’ un gran peccato, come paese, come Capitale, che la città non sia riuscita a spingere il suo calcio nel salto quantico necessario. Che la Roma capoccia e strapaesana e la Roma politica abbiano fin qui impedito, ma vale anche per la Lazio, la nascita di grandi club dotati di grande potere. Di visione. Perché sul campo vincono i Totti e gli Zaniolo, ma portarli in campo è diverso che gettarli nell’arena. Roma merita più di un calcio di tifoserie esasperate che, come la città, resta un po’ provinciale. Una città divisa nei suoi colori calcistici ma identica nello star sempre a misurare i club-azienda del calcio sull’ultimo acquisto, sull’ultimo rigore. Dan Friedkin annuncia di voler fare il salto, in qualità di 504esimo uomo Forbes più ricco al mondo, con un impero che brilla dalla Toyota in America ai resort di lusso, agli aerei, ai safari in Africa e pure al cinema. Roma, la Roma, meritano il grande show ed è il momento giusto per farlo. In bocca al lupo. Visto da qui.

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