foto LaPresse

Rudic è tornato, e vuole vincere ancora

Roberto Perrone

Chiacchierata con il più grande allenatore della storia della pallanuoto, che a 70 anni punta alla Champions con il Recco. I suoi record, l’amore per l’Italia, la passione per la pittura

Ratko Rudic si ritira. L'allenatore più vincente della storia della pallanuoto ha ufficializzato l'addio alla Pro Recco e sancito lo stop definitivo alla sua carriera a bordo vasca. Questo è il suo secondo e (forse) ultimo addio alla panchina. Già nel 2012, dopo il quarto oro olimpico conquistato a Londra con la Croazia, aveva infatti deciso di smettere. Sei anni dopo però non ha saputo resistere al richiamo di Recco.

 

Ecco cosa diceva allora, il 27 ottobre 2018, a Roberto Perrone.

  


 

“Tu sai”. Abbastanza, ma non tutto, perché la vita di Ratko Rudic, nato a Belgrado da genitori croati, passaporto croato per sangue e italiano per meriti sportivi, è talmente lunga e larga che una buona parte è ancora nascosta. Qualcosa però sappiamo. “Tu sai” è il suo classico intercalare che non deriva dall’anglosassone “you know”. In realtà è il suo modo di metterti a parte di qualcosa che ritiene importante: tu ora lo sai che. E voi sapete di chi stiamo parlando? Lo spero, ma per chi non conoscesse lo sport di squadra più antico dei Giochi olimpici, lo sport di squadra azzurro con più titoli, stiamo parlando del più vincente allenatore di tutti i tempi. Se la Waterpolo italiana è Santa, e lo è, Ratko Rudic, 70 anni compiuti a giugno, è il suo Gran Maestro. Baffi grossi, cervello fino. È stato giocatore nello Jadran di Spalato e nel Partizan di Belgrado dell’epoca d’oro. “Un buon giocatore, estroso, molto creativo, uno dei pochi con il dribbling. Potevo giocare in tutte le posizioni. Non ero un gran nuotatore, però”, dice. Da atleta ha conquistato un argento olimpico. Gli è mancato l’oro che si è preso, con gli interessi, da allenatore: quattro titoli olimpici con tre Nazionali diverse, Jugoslavia (Los Angeles 1984, Seul 1988), Italia (Barcellona 1992), Croazia (Londra 2012), tre titoli Mondiali con le bandiere appena citate. Quello con la Jugoslavia, nel 1986, battendo l’Italia, arrivò al termine della finale più drammatica della storia dello sport di squadra, non solo della pallanuoto, quattro tempi regolamentari, sei tempi supplementari, una partita di due ore, come se a calcio si giocasse tre ore, un audience pazzesco alla tv. Poi Italia (1994), Croazia (2007). Il resto mancia.

 


Illustrazione di Fabio Visintin


 

Un precursore, Ratko, nei metodi di allenamento, nel gioco, nell’innovazione. La video-analisi. Adesso tutte le squadre hanno un tecnico che filma le partite, trent’anni fa c’era solo il mitico Gianni Fedele, sodale di Ratko, con la telecamera in tribuna, guardato con un misto di curiosità, sospetto, invidia.

 

Ratko è tornato, come tecnico di club, al Recco. “Chiudo il cerchio, avevo cominciato allenando i giovani del Partizan, poi sono stato assistente allenatore, e poi la Nazionale”. In realtà, rivela, stava per tornare nel 2005, di nuovo alla guida del Settebello. “Avevo terminato la mia avventura con gli Stati Uniti e mi chiamò Paolo Barelli. Ma io avevo già dato la mia parola alla Croazia”. La Pro Recco sta alla pallanuoto come la Juventus sta al calcio e Ratko sta al Recco come Ronaldo sta alla Juventus. Lo hanno chiamato “quando pensavo di non allenare più” per vincere la Champions che manca da tre anni. Il valore aggiunto. E non è un caso che Maurizio Felugo, ex grande della Santa, campione del mondo 2011, ora con la grisaglia presidenziale del club biancazzurro, sia tifoso dei Gobbi e spesso in tribuna a Torino.

 

“Mi ha convinto il progetto”. Così è partito di nuovo, due anni dopo l’ultima panchina conosciuta, il Brasile, portato al miglior risultato della sua storia olimpica, i quarti di finale a Rio 2016. Era tornato a Zagabria “quasi pensionato”. A guardare i lavori pubblici? “Ahahaha. No, quello no, diciamo che ero un pensionato attivo. Davo una mano alla Federazione croata, poi sono membro del direttivo di Waterpolo Development che organizza manifestazioni per far conoscere la pallanuoto e del Comitato Fina per lo sviluppo del nostro sport con un progetto mondiale. La pallanuoto non l’avevo abbandonata e sono venuto a Genova a vedere le Final Eight di Champions. Ho incontrato il patron Volpi e Felugo e ci siamo salutati cordialmente, poi sono tornato a Zagabria. Dopo qualche giorno Felugo mi ha chiamato. Una sorpresa, non me l’aspettavo. Avevo dichiarato che avevo finito di allenare. Ho preso un po’ di tempo, per pensare. Alla fine ho cominciato a sentirmi intrigato. Quando c’è interesse, tu sai, c’è motivazione”.

 

E allora eccolo qui, il Ronaldo della pallanuoto, in panchina e non in campo, in questo caso in acqua, ma con lo stesso significato di arricchimento, di ciliegina per arrivare alla Champions. “Ahahaha, Ronaldo, sì. Io quando prendo una squadra corro per conquistare tutto. So che per il Recco il primo obiettivo è la Champions. Non voglio certo dimenticare gli altri, ma la Coppa dei Campioni è il più importante”.

 

Parliamo davanti a un piatto di focaccia col formaggio alla Manuelina di Recco. Ratko vive nel centro della cittadina. Ha abitato in grandi città, in metropoli, come si è adeguato? “Ma in fondo anche in grandi città ti muovi solo in una zona, in un quartiere. Io posso andare a Milano, non è distante. Mi piace molto vivere al mare. Tu sai, non dovrei dirlo nella patria della focaccia e delle trofie, ma il piatto italiano che amo di più sono gli spaghetti con le vongole”. Un evergreen, che c’è di male?

 

Ratko Rudic ha allenato la Nazionale italiana, il Settebello, dal 1991 al 2000, vincendo tutto, rivoluzionando la pallanuoto. “Quando sono arrivato ho impiegato un po’ di tempo ad adattarmi. Io lavoro molto per inserirmi nell’ambiente. Voglio conoscere tutto, sapere tutto, imparare la lingua è la prima cosa”. Cosa hai trovato, allora? “Un gruppo di qualità buona, una squadra tatticamente intelligente. Il problema era la mentalità, la filosofia del gioco, dello sport, come districarti in certe situazioni. Io ho una mia considerazione: devi affrontare ogni avversario con le stesse armi, non puoi evitare lo scontro, ti devi preparare a un certo modo, portando metodi di lavoro esigenti”. Ahia. “I giocatori non erano abituati. Io portavo le mie regole di sport, di allenamenti, di comportamenti, di vita. Ho avuto un po’ di problemi, tu sai, con le abitudini italiane. Io dovevo accettare le loro, loro accettare le mie. Ci stavamo testando vicendevolmente e alla fine del primo anno con qualche risultato ma non quelli che volevano, ci siamo seduti in un riunione aperta e i giocatori hanno esposto le loro opinioni. Abbiamo fatto un accordo molto buono, la squadra ha accettato il lavoro che volevo, alla fine si sono convinti che serviva per vincere e io ho accettato un regime di vita, all’esterno, meno severo. Per me era importante che seguissero il programma. Tu sai, qualche volta io sono troppo rigido. Mi hanno aiutato a smussare qualche angolo”.

 

E che angoli. Arriva il Grande Slam: Olimpiadi 1992, Europeo 1993, Mondiale 1994. La Waterpolo diventa Santa. Poi, dopo la vittoria a Roma, Ratko Rudic fa saltare anche l’assioma “squadra che vince non si cambia”. Fa fuori tutti i campioni del triplete, tranne due o tre. “Spesso aggregavo i giovani alla prima squadra. Li guardavo, li studiavo. Volevo portare più movimento, rapidità, gioco e questi ragazzi potevano seguirmi. Con i più anziani è più problematico cambiare certi automatismi. I giovani accettano più facilmente. Ho deciso di cominciare un nuovo ciclo, tentando questo gioco nuovo, purtroppo alcuni l’hanno presa male”. Presa male? Il mondo della Santa è andato fuori di testa. Ci voleva un bel coraggio, quello che, ad esempio, non hanno avuto Bearzot e Lippi dopo i trionfi calcistici del 1982 e 2006. “Io non ho paura, quando decido vado dritto”. Eh già. Sono arrivati un altro titolo europeo (1995) e un bronzo olimpico ad Atlanta (1996). “E questo è un grande rimpianto. Non abbiamo perso nessuna partita nei tempi regolamentari, siamo usciti in semifinale ai supplementari. Peccato. Abbiamo giocato la pallanuoto migliore, dovevamo vincere. Però lo sport è così. I dettagli decidono a tuo favore e qualche volta contro”.

 

Ratko è un ambizioso. Altrimenti non sarebbe tornato a bordo vasca a 70 anni. “Ho voglia di fare risultato, mi piace la competizione. Sono un competitore, si dice così? Sono competitivo. Nello sport, nella vita, però, sono molto più tranquillo”. Nella vita ha due passioni. Sua figlia Martina, che vive e lavora a Milano. “Martina è concertista, suona il violoncello. Sono contento perché fa il mestiere che adora. Forse non è arrivata a un livello di successi come il mio nello sport, però è felice e fa il suo lavoro con qualità. Non è il risultato che conta, ma come interpreti il tuo mestiere”. Nipoti? “Purtroppo no. Io vorrei un nipotino, non ho paura di essere chiamato nonno”. Il secondo è la pittura. “Pensavo proprio adesso di ricominciare. Ho comprato tele, pennelli e colori. Stanno aspettando”.

 

Una vita per la pallanuoto, con l’Italia come destino. Un po’ con noi, un po’ contro di noi. I suoi avversari da giocatore erano i nomi di una delle grandi generazioni della Santa: De Magistris, Ghibellini, Marsili. Ora ha ritrovato il caimano Eraldo Pizzo. “Lui è veramente una leggenda della pallanuoto mondiale, non solo di Recco e dell’Italia. Non mi ricordo se abbiamo giocato uno contro l’altro, forse aveva già abbandonato la Nazionale. Lui è stato un grande, per il suo periodo molto moderno, aveva tiro, interpretava sia attacco sia difesa”.

 

L’Italia nel cuore. Lui cittadino del mondo, emblema di una convivenza pacifica, figlio di croati ma nato a Belgrado, faceva la classifica dei paesi dove voleva vivere guardando le opere d’arte, visitando i musei. “Nel 1968 ero a Roma con la Nazionale jugoslava per un collegiale, prima dell’Olimpiade di Città del Messico. Mi sono attardato a visitare la cupola di San Pietro e la squadra è ripartita per il centro tecnico dell’Acqua Acetosa senza di me. Ho dovuto prendere un taxi. Mentre aspettavo mi guardavo intorno e pensavo che vivere a Roma sarebbe stato bello. Alla fine ci ho passato dieci anni”.

 

Il passaporto italiano glielo diede il presidente Scalfaro. “Io sono uno dei pochi stranieri, anzi credo l’unico ad aver ricevuto la cittadinanza italiana per meriti sportivi. Non ho passato tutte le procedure. Un grande orgoglio essere considerato una persona che ha dato qualcosa a questo paese. In Croazia ci sono le mie radici, ma in Italia mi sento proprio bene, venire in Italia è proprio come tornare a casa”.

 

L’allenatore del Settebello è Sandro Campagna che fu suo vice in azzurro e poi suo successore. Allievo prediletto. “Con lui c’è sempre stato un ottimo rapporto. Era contento quando ha saputo che avrei allenato il Recco. Sa che possiamo collaborare molto bene e sa che gli azzurri del Recco saranno preparati molto bene”. Nessun dubbio, ma ci sono differenze a livello di approccio con una squadra di club. “Diciamo che la preparazione è la stessa, certe regole non cambiano. Le basi sono quelle, è diversa la gestione della squadra”. I bilanci li rimandiamo, eh, ma uno che ha vinto tutto ha rimpianti? “Ci sono alcune cose che non rifarei, qualcosa che potevo evitare, però, alla fine, tu sai, devi accettare tutto. Nella vita c’è anche parte di questo. I risultati non sono il più grande piacere. Quando hai realizzato un programma, ti sei svuotato. Piuttosto ho avuto bellissimi momenti fuori e dentro lo sport, che mi hanno arricchito come persona, questa parte emotiva è molto più importante”. Ciao Ratko, è rimasta un’ultima curiosità: che farai da grande? “Ahahah, dovrò tirare fuori quelle tele e quei colori. Tu sai”.

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