PUBBLICITÁ

Dalla maratona ai turni in ospedale contro il coronavirus

Giorgio Burreddu

“Non sono atleta a tutti i costi, prima c’è l’emergenza che stiamo vivendo”. Catherine Bertone, atleta e pediatra nei giorni della grande paura

PUBBLICITÁ

La cosa più difficile è guardarli negli occhi e strappare loro via l’ansia dal cuore. “A volte la percepisci forte, è ansia, è la paura, ti osservano e ti dicono: “Dottoressa io non voglio avere il virus della tv”. I bambini sospetti transitano qui, ma negli ultimi giorni i peggioramenti li abbiamo visti con gli adulti: aspettavamo l’ondata e infatti sta arrivando. Qualche bambino positivo c’è, quasi tutti asintomatici. Dobbiamo mantenere la calma, ragionare”. Catherine Bertone lavora in pediatria all’ospedale Beauregard di Aosta. Fa quasi sempre il turno di notte, le va bene così, “ne ho vinto un altro per stasera”, e poi sorride, scherza al telefono, cercando una normalità in questo delirio. E poi c’è la corsa. Certo, prima che scoppiasse la pandemia, Catherine stava preparando la qualificazione alle Olimpiadi di Tokyo. Adesso l’idea dei Giochi si regge sul nulla, anche quelli sono diventati un pensiero marginale, laterale, confinato a un futuro incerto. Mentre il correre è diventato un gesto più profondo e più utile, quasi di sopravvivenza. “Ne ho riscoperto quel forte senso di libertà”, racconta al Foglio Sportivo, “ma andare a correre in valle è più facile, ho i boschi sotto casa, c’è molto spazio. Ieri sono uscita per un allenamento medio con un po’ di salita: ho incontrato una lucertola e una gallina scappata dal pollaio, in pratica non c’è in giro nessuno”.

ABBONATI PER CONTINUARE A LEGGERE
Se hai già un abbonamento:

Altrimenti


La cosa più difficile è guardarli negli occhi e strappare loro via l’ansia dal cuore. “A volte la percepisci forte, è ansia, è la paura, ti osservano e ti dicono: “Dottoressa io non voglio avere il virus della tv”. I bambini sospetti transitano qui, ma negli ultimi giorni i peggioramenti li abbiamo visti con gli adulti: aspettavamo l’ondata e infatti sta arrivando. Qualche bambino positivo c’è, quasi tutti asintomatici. Dobbiamo mantenere la calma, ragionare”. Catherine Bertone lavora in pediatria all’ospedale Beauregard di Aosta. Fa quasi sempre il turno di notte, le va bene così, “ne ho vinto un altro per stasera”, e poi sorride, scherza al telefono, cercando una normalità in questo delirio. E poi c’è la corsa. Certo, prima che scoppiasse la pandemia, Catherine stava preparando la qualificazione alle Olimpiadi di Tokyo. Adesso l’idea dei Giochi si regge sul nulla, anche quelli sono diventati un pensiero marginale, laterale, confinato a un futuro incerto. Mentre il correre è diventato un gesto più profondo e più utile, quasi di sopravvivenza. “Ne ho riscoperto quel forte senso di libertà”, racconta al Foglio Sportivo, “ma andare a correre in valle è più facile, ho i boschi sotto casa, c’è molto spazio. Ieri sono uscita per un allenamento medio con un po’ di salita: ho incontrato una lucertola e una gallina scappata dal pollaio, in pratica non c’è in giro nessuno”.

PUBBLICITÁ

  

Qualche giorno fa – prosegue Catherine Bertone – sono andata per lungo assieme a mio marito e siccome bisogna dare l’esempio quando siamo arrivati nel centro di Aosta ci siamo separati. Nelle grandi città è tutto più difficile, me ne rendo conto. L’accoppiata sedentarietà-televisione, con tutta l’informazione sul coronavirus, rischia di aumentare i livelli di ansia e di depressione. La corsa può essere utile, può avere effetti benefici. Ma bisogna rispettare le norme di sicurezza, fare attenzione. La regola del correre da soli vale anche per noi atleti. Io mi porto dietro la dichiarazione”.

 

PUBBLICITÁ

Alla maratona dei Giochi di Rio arrivò venticinquesima. Ottava agli Europei di Berlino nel 2018: strepitosa. Il giorno dopo la contattò l’assessore alla sanità del suo comune, le disse di stare tranquilla: non avrebbe più avuto problemi coi turni in ospedale. Invece qualche mese fa Catherine è finita di nuovo giornali per aver detto no ai Mondiali di Doha. Non c’era voluta andare, “la chiamata era arrivata all’ultimo minuto, in reparto c’eravamo già organizzati con le ferie e con i turni, non era giusto stravolgere tutto. Magari per i quattro giorni della manifestazione un sostituto lo si trova anche, ma il discorso non è quello”. Fu (l’ennesima) evidenza di una sanità da rivedere, da ripensare. Per assenza di personale, mica per altro. Tant’è che alla fine non trovarono nessun pediatra per sostituirla, la Bertone preferì rinunciare ai Mondiali e andare in pediatria a fare il suo lavoro. Se l’emergenza coronavirus cambierà anche questo, dice lei, “io non lo so: vedremo”. Illusioni non se ne fa più nessuno, ora quel che conta è uscire dalla morsa del contagio. E ognuno deve fare la sua parte. “Cosa succederà più avanti non lo so. Però è adesso che dobbiamo mantenere la calma, seguire le regole. Agitarsi non serve, rischi di andare più a fondo. Al momento sono preoccupata per l’economia, per tante altre cose”. In parte, ma con il giusto senso dell’analisi, la preoccupazione scivola anche nella quesitone Olimpiadi. L’estate sembra improvvisamente così vicina. La Bertone era (è?) in lizza per un posto a Tokyo. Ma è chiaro che un rinvio della manifestazione può, per lei che ha 48 anni, diventare un problema ancora più grande e rendere i suoi sogni olimpici una chimera.

   

“Posticiparle è un pasticcio un po’ per tutti. I ranking, le qualificazioni, è un gran casino. Nel 2022 avrò cinquant’anni, se avrò modo di tentare una qualificazione la tenterò. Altrimenti niente. D’altra parte, l’ostinazione nel portare avanti l’evento non la capisco ancora. È una questione di soldi? Io non posso essere atleta a tutti i costi, mi sembra assurdo, viene prima la salute e quello che stiamo vivendo. Non so se è un gioco politico. E poi, alle Olimpiadi chi ci va?”. Già, chi? Il valzer delle qualificazioni si è fermato, hanno staccato la spina e lo sport si è trovato nel silenzio, immerso dai dubbi, soffocato dai problemi. Come altri, anche Catherine stava cercando l’evento giusto per centrare il pass. “Volevo tentare con una maratona in primavera, ma non so quale, dove, quando. Ne hanno rinviate alcune, le altre le hanno annullate a cascata. La federazione aveva parlato di spostare la data per il minimo. Vediamo, è tutto in continuo cambiamento. Sul calendario avevo individuato la maratona di Hannover, ma anche lì ci sono punti interrogativi, scelte da fare, rimandi”. Qual che resta è un senso di incertezza. “Per che cosa mi alleno? E le Olimpiadi, poi, le faranno? Sono le domande che mi faccio. Mi sono sentita un po’ svuotata. Allora uno si guarda dentro, senti la grande passione per la corsa e la porti avanti”. E così succede a molti altri top runner, alcuni con un pass già in mano e altri no. “Ho sentito diversi amici, colleghi, stanno vivendo tutti il momento con grande senso di responsabilità e maturità. Ne ho parlato con la Straneo, ma anche con altri atleti, amici spagnoli, cambogiani, amici in tutto il mondo. Ognuno fa come può cercando di prestare attenzione, osservando il rispetto delle normative. È un momento che dobbiamo superare tutti insieme”.

 

Catherine ha riscoperto le piccole cose, i dettagli, le naturalezze che avevamo dimenticato o solo accantonato. “Il senso dei rapporti umani, dei tuoi cari. Non c’è nulla di scontato. Mamma Claudine ha più di ottant’anni, avevamo già un rapporto meraviglioso ma adesso, in questo momento storico, comprendi ancora di più il senso dei rapporti. La chiamo ogni volta che posso. È da sola, lei dice che se ne sta rinchiusa nella sua torre d’avorio. Si sente con delle sue vicine, sono in tre, si danno coraggio. “Noi abbiamo superato la guerra, prima o poi ne usciamo”, dicono. Sono generazioni con quella tempra lì, insomma”. Catherine ha due bambine, Corinne di tredici anni ed Emilie di dieci, ovviamente a casa da scuola, “e quindi me le godo di più, solitamente quando stacco dalla notte e torno a casa loro sono ancora a scuola. Cerco di far seguire un ritmo regolare anche a loro, si pranza insieme. E’ un altro aspetto importante: non ci mancano i beni di prima necessità. Anche loro stanno attente. Viviamo in un vecchio cascinale, come quelli di una volta, ci sono più famiglie, i bambini, gli anziani. Teniamo le distanze, le mie figlie non vanno a giocare dai vicini, niente film a casa delle amichette come si faceva prima. Però siamo una grande famiglia, ti senti per videochiamata, c’è chi fa i biscotti e magari li lascia sul davanzale. C’è uno scambio reale”.

PUBBLICITÁ

 

PUBBLICITÁ

Con i figli dentro casa, racconta Catherine, “sono aumentati molto gli incidenti domestici: comprensibile, i bambini non è facile tenerli così tante ore, magari giorni. In pronto soccorso ne arrivano. Uno si è fatto male cadendo, un altro pure. Finché hai il giardino, uno spazio per uscire è un conto, ma se stai sempre in appartamento la situazione si complica”. E ovviamente il virus è un mostro che abbraccia le paure di tutti. “L’altra sera in famiglia stavamo ascoltando la radio. Il radiogiornale, perché noi la tv non l’abbiamo, mio marito Gabriele non l’ha voluta. Parlavano di dei morti, coi numeri, le cifre, e una delle mie figlie mi dice: “Allora è una cosa seria”. Ragiona, le ho detto io, se ti fanno stare a casa da scuola…” È così”. In questo momento anche l’informazione sta giocando un ruolo importante, decisivo, soprattutto coi più piccoli. “Bisogna che le mamme e i papà aiutino i loro figli a capire, a seguire le notizie. Magari insieme, davanti alla televisione. Al nostro pronto soccorso abbiamo trattato anche casi di ansia infantile. “La mamma doveva morire di coronavirus”, mi ha detto una bimba. La mamma invece stava bene. Ho visto l’ansia nei loro occhi, non è giusto”. È la frenesia della paura. “Questa vita assomiglia un po’ a una corsa di cui non conosciamo la lunghezza”. Non possiamo fermarci adesso.

Di più su questi argomenti:
PUBBLICITÁ