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il foglio sportivo

Che cosa insegna la crisi allo sport

Moris Gasparri

Rapporti con la politica, spettatori, esports e fine di un mondo. Perché il virus cambierà tutto

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Queste settimane di quarantena causa coronavirus non verranno ovviamente ricordate per vittorie e risultati. È possibile però ricavare dalla crisi in corso delle lezioni per il sistema dello sport professionistico. Tra analisi della realtà e provocazioni futurologiche, ne abbiamo individuate cinque.

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Queste settimane di quarantena causa coronavirus non verranno ovviamente ricordate per vittorie e risultati. È possibile però ricavare dalla crisi in corso delle lezioni per il sistema dello sport professionistico. Tra analisi della realtà e provocazioni futurologiche, ne abbiamo individuate cinque.

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Partiamo dalla prima. È andata in frantumi la grande illusione che lo sport potesse godere di uno statuto differente in grado di metterlo al riparo dal rischio politico. Non valgono gli esempi delle interruzioni nei due conflitti bellici dello scorso secolo, i campionati non assegnati (di cui ancora discutiamo a più di un secolo di distanza) o annullati. Il mondo dello sport non aveva minimamente la presenza globale che ha ora, e non si pensava certo come un settore industriale. Anzi, dove lo stava diventando, negli States, accadde addirittura il contrario. Nel gennaio del 1942 la Major League Baseball, alla domanda circa la possibilità di proseguire con il campionato nonostante l’ingresso in guerra degli Stati Uniti, ricevette l’assenso presidenziale di Franklin Roosevelt. “Green light letter” venne ribattezzata la risposta, andate pure avanti perché le vostre partite sono importanti per il morale del popolo americano. Anche nel mondo post-Guerra fredda lo sport è stato sostanzialmente immune dai rischi. Non è stato il bersaglio privilegiato di attacchi terroristici, non ha mai temuto cambi di maggioranza, non ha mai avuto oppositori anzi si è spesso pensato come elemento pacificatore dei conflitti. La sua crescita è stata inarrestabile, anche durante la grande recessione economica. Questo presunto senso di estraneità e di invincibilità spiega l’afasia di tutte le grandi leghe di fronte all’avanzare del virus, e la loro incapacità ad accettare il proprio “spegnimento” temporaneo. Ovviamente, chi prima chi dopo, si sono “spente” tutte alla fine, perché nessun senso dell’ottimismo può derogare dal senso di realtà, quello che per Musil corrispondeva al fatto che gli stipiti delle porte sono duri.

 

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Tutto questo ci porta alla seconda lezione, che riguarda appunto l’assunzione del rischio politico negli scenari sportivi presenti e futuri determinati dalla crisi. Qui nascono degli interrogativi. Gli esperti prevedono una guerra lunga di contrasto alla diffusione del virus di cui siamo solo agli inizi, fatta con ogni probabilità di pause intermittenti, allentamenti e restrizioni della mobilità, fino all’arrivo del vaccino prevedibile in un arco temporale di un anno e mezzo. Volkswagen prevede il ritorno alla normalità tra due anni. Nel frattempo siamo alla quarta pandemia mondiale in 20 anni, la prima che dalla Cina arriva in tutto il mondo, non casualmente essendo aumentato a dismisura il suo ruolo globale. Data la crescita delle connessioni economiche con il continente africano, in futuro potrebbero teoricamente interessarci anche quelle. Può il mondo dello sport non considerare questi scenari di rischio? Pur nel suo diventare industria, è sempre stato uno dei mondi più lontani dagli studi strategici. Tanta, tanta economia, master manageriali, bilanci, contabilità, break even, linguaggi divenuti in tempo di fair play finanziario anche un genere giornalistico di successo e addirittura argomento della chiacchiera da bar. Scommettiamo che non sarà più così?

 

La terza riguarda gli spettatori dal vivo. Associamo il farsi industria dello sport al suo matrimonio con i grandi network televisivi e al ruolo propulsivo dei grandi campioni. È come parlare di spazi digitali ignorando la realtà dei cavi sottomarini che li rendono materialmente possibili. I “cavi” dello sport sono le persone in carne e ossa che si recano negli stadi a vedere le partite, quelle che con il loro “assembrarsi” fanno esistere lo spettacolo per chi guarda da casa, più di ogni altro elemento. Venendo al caso italiano, quello che abbiamo visto per qualche settimana prima della sospensione non è stato calcio, bensì uno spettacolo spettrale, ombra di ombra. E il futuro? Una prossima stagione a porte chiuse in tutto il mondo (scenario molto probabile) potrebbe avviare un grande cambiamento che già la mente di Borges aveva profetizzato decenni fa: il superamento del pubblico dal vivo. O meglio, la sua smaterializzazione tecnologica a mezzo effetti audio e video, per riprodurre atmosfere ed emozioni per lo spettatore televisivo, sulla scia dell’entertainment cinematografico che da tempo ha superato le sale per arrivare direttamente nelle case. Ci vorrà tempo, ma la strada potrebbe essere più segnata di quel che pensiamo.

 

La quarta lezione riguarda il mondo degli esports. Nella classifica degli “sport thinkers” del 2019 compilata per il Foglio Sportivo assieme a Mauro Berruto avevamo dato molto spazio alla loro ascesa. La pandemia ce li inquadra ora sotto un’altra prospettiva, quella del vantaggio competitivo. Sono infatti l’unica forma di competizione sportiva che può funzionare e sopravvivere nel distanziamento sociale. Intanto per ragioni logistiche. Da casa puoi organizzare allenamenti e competizioni, mentre tutti gli altri atleti sono costretti al massimo a storie Instagram con gli esercizi funzionali fatti in salotto. Poi perché la presenza del pubblico dal vivo non è essenziale allo spettacolo come per gli sport tradizionali (anche se conta, vedi i 20 mila spettatori per la finale mondiale di League of Legends a Parigi). Si sposteranno ulteriori investimenti in questo settore anche per questo motivo? Probabile. Certo, servirà tempo per costruire un pubblico che a oggi è di massa in Asia, fuori molto meno e solo in precisi target generazionali.

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La quinta e ultima lezione è filosofica, la coscienza della propria finitezza. Avete mai pensato che lo sport potrebbe finire? Studiare la storia dello sport nell’età classica rende preparati a questa possibilità. Non è interamente vero che fu l’editto di Teodosio nel 393, e quindi il cristianesimo divenuto potere, a decretare la fine dell’agonismo classico. Il Circo Massimo terminò le sue corse molto dopo, nel 549, sotto gli sguardi del re goto Totila. A Bisanzio le gare del circo continuarono fino alle soglie del XIII secolo. Nella parte occidentale dell’impero furono invece ragioni molto più materiali – invasioni, malattie, crisi economica e demografica – a far scomparire un mondo che era divenuto globale e pervasivo con un’intensità paragonabile al nostro. Nulla ne restò, a parte sepolte rovine. Speriamo che a noi vada meglio.

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