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il foglio sportivo

La solitudine del cronista sportivo

Roberto Perrone

Gli eventi rimandati, quelli annullati e quelli in bilico. Quando torneremo a raccontare un’impresa dal vivo?

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La solitudine del (vero) giornalista sportivo al tempo del coronavirus è una faccenda seria. Qualcuno potrebbe scriverci un romanzo (più o meno) di successo e candidarsi per il Premio Strega. Beh, questo non è difficile, alzi la mano l’autore italiano che non è in lizza quest’anno. Parliamo del (vero) giornalista sportivo che va nei posti, che cerca e incontra le persone, che racconta storie, nel senso di esistenze, avvenimenti, percorsi, e non storie intese come balle più o meno spaziali. Che intervista gli esseri umani, andandoli a guardare in faccia e non prende solo le dichiarazioni dalle interviste paludate delle tv concessionarie. Gli altri, questa solitudine, nei giorni, nelle settimane, nei mesi e negli anni del Covid-19 non la sentono, non è un loro problema. I cazzari da tastiera, quelli che non sono mai stati da nessuna parte, se non davanti al computer, i migliori (si fa per dire), o solo con gli occhi piantati nello smartphone, i peggiori, non sono mai soli perché si parlano addosso o parlano addosso agli altri, in una babele di commenti saccenti e insulti.

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La solitudine del (vero) giornalista sportivo al tempo del coronavirus è una faccenda seria. Qualcuno potrebbe scriverci un romanzo (più o meno) di successo e candidarsi per il Premio Strega. Beh, questo non è difficile, alzi la mano l’autore italiano che non è in lizza quest’anno. Parliamo del (vero) giornalista sportivo che va nei posti, che cerca e incontra le persone, che racconta storie, nel senso di esistenze, avvenimenti, percorsi, e non storie intese come balle più o meno spaziali. Che intervista gli esseri umani, andandoli a guardare in faccia e non prende solo le dichiarazioni dalle interviste paludate delle tv concessionarie. Gli altri, questa solitudine, nei giorni, nelle settimane, nei mesi e negli anni del Covid-19 non la sentono, non è un loro problema. I cazzari da tastiera, quelli che non sono mai stati da nessuna parte, se non davanti al computer, i migliori (si fa per dire), o solo con gli occhi piantati nello smartphone, i peggiori, non sono mai soli perché si parlano addosso o parlano addosso agli altri, in una babele di commenti saccenti e insulti.

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Noi parliamo delle storie e della solitudine di chi non può raccontarle. Parliamo di quelli che le storie le raccontano e che, a causa del virus, rischiano di restare inchiodati dietro le scrivanie e/o davanti alla tv per i prossimi grandi avvenimenti sportivi. Ridotti come gli altri, non avendone il fisico bestiale, nel senso pieno del termine.

  

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Parliamo di quelli che aspettano, esattamente come un atleta che la prepara per quattro anni, la prossima Olimpiade. Questi, che vanno sul campo, ora si sentono soli, privati di qualcosa. Gli altri starnazzano su Twitter, loro aspettano che qualcuno annunci che il peggio è passato, per la salute pubblica e per il desiderio di essere là, dove il grande sport accade.

 

Partite che non ci sono, litigi tra Lega, presidenti dei club, società che esonerano allenatori e dirigenti che esonerano le società. Questo non ce lo neghiamo anche ai tempi del coronavirus, ma senza un Olimpiade, senza un’Olimpiade vissuta in prima fila, la solitudine è assicurata. Quelli costretti ora a stare almeno a un metro o a lavorare da casa, sognano la transenna della zona mista olimpica, conquistata sgomitando in mezzo a gente che non conosce l’uso del deodorante, in una cacofonia di lingue sconosciute, tra umidità, calura, fluidi propri e altrui. Aggrappati alla transenna, sperano di strappare una parola, una frase, a chi passa dall’altra parte, la Divina Federica, Christian Coleman o l’ultimo tiratore azzurro che ha vinto l’immancabile medaglia d’oro (un paese di santi, poeti e tiratori) e diventa l’eroe eponimo che dà senso alla nostra presenza lì, che risponde alla nostra curiosità. Perché, malgrado i suoi difetti, il (vero) giornalista sportivo, quello che va nei posti, è curioso come pochi altri.

 

Piccolo aneddoto. Istanbul, 1999, campionati europei di nuoto. Il francese Franck Esposito, con l’accento sulla ultima o, ça va sans dire, vince i 200 farfalla. Uno che si chiama Franco Esposito, diciamola giusta, ma batte bandiera francese, deve avere una bella storia alle spalle. Mentre siamo lì che lo aspettiamo, per portarci avanti chiediamo ai colleghi transalpini di raccontarci da dove viene Franco. “Je ne sais pas” è la risposta. Ma come non lo sai? Noi, se avessimo uno che vince l’oro per l’Italia e si chiama Carlo De Gaulle ti sapremmo declinare tutto il suo albero genealogico, compresi i nomi delle babysitter.

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Ecco, è per momenti come questi che il (vero) giornalista sportivo attende le grandi manifestazioni. Per qualcosa di nuovo, per scoprire il curling a Pinerolo, come è successo a me nel 2006 o per seguire l’urlo che a volte si leva in sala stampa, “C’è un’italiana vicina alla medaglia nell’equitazione”, e tutti si corre al campo di gara, non avendo mai visto un cavallo, se non nei film di John Wayne. Per scoprire che “l’italiana”, per metà tedesca, non parla una parola della lingua di Dante e non vince nemmeno la medaglia. La paura per la cancellazione dell’Olimpiade o per un Europeo di calcio azzoppato fa compagnia al (vero) giornalista sportivo. Perdere l’Olimpiade sarebbe un po’ come un cronista politico senza un’elezione o una crisi di governo, o un critico cinematografico senza Cannes, Venezia e la notte degli Oscar, o un giornalista di musica senza Sanremo. Che poi, Sanremo, i colleghi che lo seguono lo trattano malissimo, ma io mi chiedo che farebbero se chiudesse. Altro che solitudine. Certo, non tutti i grandi avvenimenti sono uguali, niente regge il paragone con l’Olimpiade. Tokyo ci sarà e sarà bellissima, siamo fiduciosi. Non tutte lo sono, ma io non avrei rinunciato a nessuna delle mie nove. Neanche alla peggiore, Atlanta 1996, dove non c’era una piazza, una via, un viale, un vicolo, un corso che non fosse intitolato a una delle due glorie locali, le pesche, anzi l’albero di pesche “peachtree”. Peachtree-qualcosa era l’incubo del viaggiatore: confondevi “square” con “place” ed eri fatto. Tutto era un terno al lotto. Salivi su un bus per la piscina e ti trovavi davanti alla staccionata di un ranch fuori città con le vacche che ti guardavano distratte prima di rimettersi a ruminare e l’autista che allargava le braccia. “Sorry, sono di New York, mi sono perso”. L’altra gloria locale erano le noccioline (do you remember Jimmy Carter?) unico genere di conforto previsto in sala stampa. Ricordo una grande sede e gli improponibili cessi chimici che se li avessimo messi noi ce li rinfaccerebbero ancora adesso.

 

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Il mio mantra era: “Se non mi avessero inviato mi sarei suicidato, ora che ci sono mi vorrei suicidare”. Perché, il (vero) giornalista sportivo trova sempre qualcosa da raccontare. In questo momento è solo, gli manca la storia che vuole scrivere. Ridategliela.

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