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Il mito di Kobe Bryant è fatto di “work ethic” e volontà di vittoria

Eugenio Cau

Non c’è nient’altro di più meravigliosamente americano di come l'ex icona dei Lakers è riuscita ad andare oltre il proprio talento

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In “American Gods”, libro del 2001 da cui Amazon ha tratto una serie tv poco riuscita, lo scrittore Neil Gaiman racconta che l’America è l’ultimo luogo al mondo in cui possono nascere miti e nuove divinità. Lo sport americano, in particolare, è un luogo strutturalmente fertile per la creazione di mitologie, ma pochi sportivi nella storia sono davvero ascesi al rango divino: Kobe Bryant è uno di questi. In quella grande fabbrica di miti americani che è la pallacanestro, l’ingresso nel pantheon è tutta una questione di aneddoti. Certe partite, certe statistiche, perfino certe occhiate decretano il tuo status e il tuo posto nella storia. E attorno a Kobe Bryant, morto domenica a 41 anni in un incidente in elicottero, circola una categoria di aneddoti che ricollega il campione di basket con la trama più grande della mitologia americana. Se il dossier di Bryant sarà conservato nello stesso cassetto in cui c’è quello di Steve Jobs, la ragione sarà la “work ethic”, che in parte è etica del lavoro e in parte è volontà di potenza, ed è l’unico ingrediente che non può mai mancare a un mito americano – più importante del talento e del genio. Se pensate che Bryant sia diventato uno dei migliori giocatori di pallacanestro della storia grazie ai punti e alle schiacciate spettacolari commettete un errore di valutazione. Ci sono giocatori che hanno segnato più punti e altri che hanno fatto schiacciate più impressionanti. Ci sono giocatori come LeBron James a cui tutto sembra riuscire senza sforzo, anche le imprese più incredibili, e che per questo sono amati e odiati. Bryant era amato e odiato per la ragione contraria: ogni movimento sul campo, ogni impresa individuale e ogni campionato vinto sono stati il frutto di uno sforzo superiore. Il gioco di Kobe Bryant era fatto di espressioni facciali contorte e mascelle serrate, e in ultima analisi era una sfida di volontà più che di tecnica e di atletismo: riuscirò a vincere la fatica per un minuto più del mio avversario, le mie gambe reggeranno più delle tue, la mia sete di vittoria sarà più ardente della tua.

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In “American Gods”, libro del 2001 da cui Amazon ha tratto una serie tv poco riuscita, lo scrittore Neil Gaiman racconta che l’America è l’ultimo luogo al mondo in cui possono nascere miti e nuove divinità. Lo sport americano, in particolare, è un luogo strutturalmente fertile per la creazione di mitologie, ma pochi sportivi nella storia sono davvero ascesi al rango divino: Kobe Bryant è uno di questi. In quella grande fabbrica di miti americani che è la pallacanestro, l’ingresso nel pantheon è tutta una questione di aneddoti. Certe partite, certe statistiche, perfino certe occhiate decretano il tuo status e il tuo posto nella storia. E attorno a Kobe Bryant, morto domenica a 41 anni in un incidente in elicottero, circola una categoria di aneddoti che ricollega il campione di basket con la trama più grande della mitologia americana. Se il dossier di Bryant sarà conservato nello stesso cassetto in cui c’è quello di Steve Jobs, la ragione sarà la “work ethic”, che in parte è etica del lavoro e in parte è volontà di potenza, ed è l’unico ingrediente che non può mai mancare a un mito americano – più importante del talento e del genio. Se pensate che Bryant sia diventato uno dei migliori giocatori di pallacanestro della storia grazie ai punti e alle schiacciate spettacolari commettete un errore di valutazione. Ci sono giocatori che hanno segnato più punti e altri che hanno fatto schiacciate più impressionanti. Ci sono giocatori come LeBron James a cui tutto sembra riuscire senza sforzo, anche le imprese più incredibili, e che per questo sono amati e odiati. Bryant era amato e odiato per la ragione contraria: ogni movimento sul campo, ogni impresa individuale e ogni campionato vinto sono stati il frutto di uno sforzo superiore. Il gioco di Kobe Bryant era fatto di espressioni facciali contorte e mascelle serrate, e in ultima analisi era una sfida di volontà più che di tecnica e di atletismo: riuscirò a vincere la fatica per un minuto più del mio avversario, le mie gambe reggeranno più delle tue, la mia sete di vittoria sarà più ardente della tua.

 

La mitologia sportiva americana è questione di aneddoti, e quelli più impressionanti attorno a Kobe Bryant riguardano la work ethic e la volontà di vittoria. Nel 2013, durante una partita contro i Golden State Warriors, Bryant subì fallo, cadde a terra e si ruppe il tendine d’Achille. È un infortunio doloroso, di solito gli sportivi che lo subiscono escono dal campo in barella, ma Bryant aveva due tiri liberi da fare. Si alzò, fece entrambi i canestri e poi andò nello spogliatoio sui suoi piedi. Uno degli aneddoti più famosi è apocrifo, perché non è mai stato confermato dal diretto interessato, e potrebbe essere falso. Ma per tutti gli appassionati, anche gli esperti, è parte del corpus mitologico di Kobe Bryant: un preparatore atletico della Nazionale di basket americana raccontò che, durante il ritiro prima delle Olimpiadi di Londra, Bryant lo chiamò al telefono alle quattro e un quarto del mattino, chiedendo se poteva venire in palestra per aiutarlo con l’allenamento. Il preparatore atletico arriva in palestra alle cinque e Bryant è già sudato fradicio. I due lavorano per due ore sul campo e in sala pesi, poi il preparatore si ritira in albergo per dormire un paio d’ore. Torna in palestra alle 11 del mattino, l’orario previsto per l’inizio degli allenamenti ufficiali della Nazionale, e Bryant è ancora lì, non era mai andato a dormire. Il mito si nutre di questi aneddoti, racconti di ossessioni e di caparbietà, come quando si infortunò la spalla destra durante una partita e pretese di rimanere in campo usando soltanto la mano sinistra (Bryant era destro). Testimonianze attonite di compagni di squadra e avversari, come quella di Phil Jackson, allenatore leggendario, che disse che la work ethic di Bryant era più dura di quella di Michael Jordan. Nel 2010 Bryant disse che avrebbe voluto essere ricordato come “una persona che è andata oltre il proprio talento. Vorrei che si pensasse a me come qualcuno che ha superato le sue possibilità. Significherebbe che ho spremuto ogni goccia possibile da questa palla arancione”. In inglese usò la parola “overachiever”, e non c’è sintesi migliore del mito americano. 

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