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Tra Reggio e Milanello. Kobe Bryant prima di essere Black Mamba

Giovanni Battistuzzi

Il bambino che diverrà campione. Carmine Sticci racconta il periodo italiano del cestista morto ieri in un incidente in elicottero

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Roma. In principio fu la palla. Ma a quadri, non a spicchi. “Era un giorno di inizio aprile quando suonò il citofono. Scesi, aprii la porta e mi ritrovai davanti un gigante nero che mi chiedeva se potevo ridargli il pallone. Notai solo dopo la richiesta la presenza di un bambino con l’espressione mogia e triste mezzo nascosto dietro le gambe di quell’energumeno”. Carmine Sticci conobbe Kobe Bryant quel giorno di inizio aprile del 1987, al di là di una ringhiera di un giardino appena fuori dal centro di Reggio Calabria dietro alle gambe “lunghissime di Joe”. Sono passati oltre trent’anni, “trent’anni durante i quali io sono diventato vecchio e lui un campione. Però qualche volta ci sentivamo lo stesso. Mi mandava i video di saluti e altre diavolerie tecnologiche. Quando ho letto che era morto non ci volevo credere. È stato un pugno all’altezza dello stomaco. Non riuscivo a parlare, non mi veniva il respiro. Ho più di ottant’anni era lui che doveva sapere della mia morte, non io della sua”.

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Roma. In principio fu la palla. Ma a quadri, non a spicchi. “Era un giorno di inizio aprile quando suonò il citofono. Scesi, aprii la porta e mi ritrovai davanti un gigante nero che mi chiedeva se potevo ridargli il pallone. Notai solo dopo la richiesta la presenza di un bambino con l’espressione mogia e triste mezzo nascosto dietro le gambe di quell’energumeno”. Carmine Sticci conobbe Kobe Bryant quel giorno di inizio aprile del 1987, al di là di una ringhiera di un giardino appena fuori dal centro di Reggio Calabria dietro alle gambe “lunghissime di Joe”. Sono passati oltre trent’anni, “trent’anni durante i quali io sono diventato vecchio e lui un campione. Però qualche volta ci sentivamo lo stesso. Mi mandava i video di saluti e altre diavolerie tecnologiche. Quando ho letto che era morto non ci volevo credere. È stato un pugno all’altezza dello stomaco. Non riuscivo a parlare, non mi veniva il respiro. Ho più di ottant’anni era lui che doveva sapere della mia morte, non io della sua”.

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In quell’aprile del 1987 Sticci era sceso nella sua città natale per curarsi da una brutta polmonite, “mi ritrovai a far da arbitro alle sfide tra mio figlio e quel bambino che viveva per la palla. Suo padre era un mito a Reggio Calabria, uno tra i più forti cestisti della squadra, ma io non lo conoscevo. Del basket non mi ero mai interessato. Iniziai a farlo allora”.

 

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Carmine Sticci d’altra parte aveva sempre giocato ad altro: calcio in gioventù, poi bocce, specialità Raffa. “E negli anni Settanta in Veneto, a Conegliano e dintorni, ero diventato uno notorio. Mi volevano tutti in squadra nonostante fossi un terrone”. Lo chiamavano il Mago e non solo per la capacità di piazzare la boccia nel posto giusto, ma anche perché “sistemavo i muscoli e pure i nervi e articolazioni. All’epoca non c’erano scuole, ci voleva soltanto sensibilità e qualche rudimento di meccanica del corpo”. Iniziò a fare il massaggiatore perché le bocce non davano da mangiare, fu la sua fortuna. “Prima Vittorio Veneto per quattro spicci, poi mi chiamò la Reggiana e lì erano bei soldi”.

 

Lasciò il Veneto per l’Emilia nel 1980. “E nel 1989 mi ritrovai di nuovo in mezzo ai piedi quel bambino. Con mio figlio erano diventati amici, giocavano a calcio ogni pomeriggio. Perché Kobe, a basket era fortissimo, ma gli sarebbe piaciuto fare il calciatore. Solo che coi piedi era meno bravo che con le mani e così la scelta fu facile”. Anche perché quando lo si vedeva giocare “era facile capire che aveva una marcia in più di tutti gli altri. Era armonico e sinuoso, sembrava un’anguilla, sgusciava via e gli altri rimanevano con nulla in mano se non la frustrazione di non riuscire a prenderlo”.

   

 

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Il Kobe bambino non era diverso dal Kobe adulto. “Era meticoloso. E molto curioso. Faceva domande, stava a sentire le risposte, voleva imparare qualsiasi cosa. Poi ogni tanto non studiava, ma questi erano cavoli di Joe”.

 

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Foto LaPresse


 

La sua domanda più insistente era quella “di andare a vedere dove lavoravo”. Perché all’epoca Sticci sistemava i muscoli dei giocatori del Milan, “ma non a tutti, solo ai ragazzini delle giovanili. Ero un autodidatta e alla fine degli anni Ottanta già servivano i titoli di studio”. A Milanello c’era arrivato che il presidente era Giussy Farina e che la rosa era quella che era: “Buoni giocatori, l’unico campione era Franco Baresi, un uomo eccezionale”. Rimase anche all’inizio dell’epoca d’oro della rivoluzione sacchiana.

  

 

Un giorno di gennaio del 1991 Carmine si fece trovare fuori dal PalaSharp di Milano, caricò Kobe in macchina con la scusa di portarlo a mangiare qualcosa prima di vedere il padre giocare e pigiò sull’acceleratore, direzione Carnago. “Ricordo ancora i suoi occhi quando vide Milanello. Ricordo ancora il suo ohhhh sospeso quasi si trovasse di fronte a una meraviglia. Mi disse, ‘ma Carmine te sei davvero un mago’. Fosse stato per lui sarebbe stato là tutto il giorno. Ma Joe giocava e si doveva tornare al palazzetto. Ricordo che disse che a basket non c’avrebbe più giocato. Fortuna si dimenticò subito della cavolata che aveva detto appena vide il parquet”.

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