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Dino Meneghin, il più grande di tutti

Umberto Zapelloni

Stasera l’Olimpia Milano ritirerà la maglia numero 11 nell’intervallo della partita contro il Maccabi

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Se fosse stato alto 1 metro e 60, sarebbe diventato uno dei migliori fantini del mondo. Se fosse stato alto un metro e 70, sarebbe diventato un grande giocatore di calcio. Se non si fosse annoiato a lanciare il peso e il disco, avrebbe vinto un oro olimpico. Se non si fosse trovato un pallone tra le mani, sarebbe diventato un grande architetto. Per fortuna del basket Dino Meneghin è cresciuto fino 2 metri e 4 centimetri e in un’epoca in cui il volley non rubava talenti sotto canestro, è diventato il miglior giocatore italiano di sempre, anche oggi che tanti suoi eredi giocano da protagonisti nella Nba. L’America aveva cercato anche lui, ma erano gli anni Settanta, le comunicazioni transoceaniche erano quel che erano e lo venne a sapere solo molto tempo dopo, fuori tempo massimo per tentare l’avventura. E quando poi arrivò una seconda chiamata per partecipare a un camp di selezione dei New York Knicks non si presentò alla Summer League, per non perdere la maglia azzurra. “Lo dicevo sempre ai miei genitori, se mi aveste fatto nascere 20 anni dopo, sarei miliardario”.

  

Dino Meneghin avrebbe sfondato in qualsiasi sport perché aveva il fuoco dentro, aveva la cultura del lavoro per migliorarsi, aveva innato il senso del sacrificio per i compagni, per la squadra. Tutte qualità che non si insegnano in palestra, ma si portano nel cuore dalla nascita, dalla fanciullezza. Se a quelle, poi, unisci un talento che non può passare inosservato come potete vedere voi stessi cercando su YouTube certi suoi movimenti offensivi rapidi, armonici, stupefacenti per un omone della sua stazza, avrete il modello del giocatore perfetto. Non è stato Jabbar, non è stato Magic, non è stato Jordan, non è stato Lebron James, ma è un giocatore che qualsiasi allenatore vorrebbe nella sua squadra, nel suo spogliatoio. Un giocatore che l’America, dove non ha mai giocato, ha ammesso nella Hall of Fame a Springfield, Massachusetts.

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Per i ragazzi di oggi Dino Meneghin è un signore di quasi 70 anni (li festeggerà il 18 gennaio, auguri!) con la faccia simpatica, le manone grandi e una voglia di ridere che non lo abbandonerà mai. Ma Meneghin, a cui stasera l’Olimpia ritirerà la maglia numero 11 nell’intervallo della partita contro il Maccabi, è un monumento del basket. “No, monumento no per favore, gli uccelli ci fanno la…”. Un vero gigante in un mondo di giganti. Era tosto, duro, cattivo al punto giusto ma mai sleale, uno dei più grandi agonisti mai visti nel mondo dello sport. “Uno che lottava, uno che non si è mai arreso, uno che ha sempre cercato di dare il meglio”, come si racconta lui. Se devi pensare a uno che non molla mai pensi a Dino Meneghin che si rialza e difende come un toro dopo che i crampi lo avevano piegato nei minuti conclusivi di una finale di coppa dei campioni col Maccabi, nel 1987, che non avrebbe dovuto giocare perché aveva una lesione muscolare. D’altra parte ha giocato con il naso rotto, con una maschera da guerriero a proteggerlo, con un pezzo di metallo nell’avambraccio fratturato. Ha giocato fino a 44 anni, fino a quando non ha affrontato da avversario suo figlio Andrea, uno che aveva il talento per superare papà, ma è stato sgambettato da troppi guai fisici. Il rapporto con il figlio partito male, forse addirittura malissimo, si è trasformato con il passare del tempo ed oggi nonno Dino è molto meglio di papà Dino.

 

  

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Per capire quanto è stato grande basta rileggere il suo albo d’oro: ha disputato 13 finali di Coppa dei Campioni, vincendone 7, a cui vanno aggiunte 2 Coppe delle Coppe, 1 Coppa Korac, 4 Coppe Intercontinentali, 12 scudetti, 6 Coppe Italia, un oro e due bronzi agli Europei con la Nazionale, un argento olimpico a Mosca. Il tutto tra Varese, Milano e Trieste in trent’anni di carriera. Negli anni Ottanta, quelli della Milano da bere, fu protagonista dello scambio più clamoroso della storia del basket lasciando la Pallacanestro Varese per l’Olimpia. È come se oggi Messi andasse al Real Madrid, tenendo conto che a quei tempi non c’era stato un Cristiano Ronaldo che era andato alla Juve… Qualcosa di clamoroso, con l’aggravante che Dino arrivò a Milano con un ginocchio distrutto e in molti cominciarono a credere in un pacco confezionato ad arte per la sua nuova società. Non sapevano che dentro quel pacco c’era un uomo con un carattere e una personalità che bisognerebbe studiare nei corsi per manager. “Sono il coach che ha allenato Dino per più anni tra Varese e la Nazionale, conosco bene l’uomo e il giocatore. Tra tutti i giocatori che ho conosciuto è il primo che sceglierei. E’ uno dei più grandi vincenti della storia del basket. Solo lui ha avuto l’energia e la determinazione di trasformare le sue squadre in campioni”, dice di lui un altro monumento, Sandro Gamba.

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Il bello di Meneghin è che leggendo tutto quello che abbiamo scritto di lui è ancora capace di arrossire. Perché la sua forza straordinaria è stata anche quella di non prendersi mai troppo sul serio, di cercare sempre come migliorarsi. Rispettava gli allenatori a tal punto che anche una volta diventato presidente federale ha continuato (e continua anche oggi che gli ha fatto da testimone di nozze) a dar del lei a Dan Peterson. Rispettava compagni e avversari anche se poi ai compagni sapeva confezionare degli scherzi tremendi. Carte d’imbarco strappate in aeroporto, calze sporche infilate nei beveroni energetici, quando non ci infilavano altro. Amichi miei? Scherzi a parte? Di tutto, di più, e il bello è che molti scherzi li ha confessati solo anni dopo, nella sua autobiografia scritta con Flavio Vanetti, un altro malato di scherzi. Nato ad Alano di Piave, cittadino onorario di Varese, milanese di residenza, Dino Meneghin ha sempre avuto il numero 11. In tempi in cui i tatuaggi non erano di moda, quello era il suo. Quello è il numero della maglia Olimpia che verrà ritirata a Milano. Un numero che gli arrivò sulle spalle per caso. “Tu prendi l’11”. Ma ai tempi l’11 non era ancora il numero del mito, almeno in Italia. “Nel 1965 giocavo in Serie B alla Robur et Fides. Nell’Ignis c’era un giocatore, si chiamava Toby Kimball, un bianco con un bel fisico. Solo che andò via e mi dissero, “dai prendi l’11”. Non mi hanno detto di scegliere, avevo 16 anni e non potevo scegliere nulla”. L’11 di Meneghin è come il 10 di Maradona o di Platini. Vederlo appeso nel cielo del Forum farà un certo effetto. Ma servirà da esempio. Per non mollare mai.

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