Ci vediamo al prossimo stadio

Nicola Imberti

Il futuro ancora non scritto del caro vecchio “Meazza” visto da Scaroni, Marotta e… Salvini

Milano. “Ma ti ricordi quando il secondo anello era con i gradoni? Per trovare il posto era una lotta, si stava tutti stretti stretti”, Giacomo Poretti guarda il prato di San Siro ed è subito il ricordo della prima volta. Quella di quando aveva quattro anni e arrivò allo stadio con il padre: “Eravamo dove una volta c’erano i distinti. Io sulle sue spalle. In due facevamo un metro e quaranta, non vedevamo niente”. Perché è inutile girarci intorno, il problema è tutto qui. Nell’eterna lotta tra passato e futuro. Tra la memoria, i sentimenti e una modernità che incombe con la sua furia iconoclasta. Così tutti quelli che si alternano sul palco del “Foglio a San Siro”, l’evento organizzato oggi a Milano dal Foglio, non possono sottrarsi alla raffica di domande: che ne sarà dello stadio Meazza? Verrà demolito? Milan e Inter troveranno l’accordo per costruirne uno nuovo? Oppure ognuna delle due squadre realizzerà il proprio impianto? E se alla fine decidessimo di ristrutturarlo? Le risposte, considerando il valore affettivo dell’intera vicenda, non possono che essere diversissime. Il presidente del Milan, Paolo Scaroni, ad esempio, non esclude che la società possa comunque abbandonare San Siro: “La nostra esigenza di fare qualcosa di nuovo è totale. Siamo alleati con l’Inter per questo progetto e ci stiamo lavorando da mesi. Il Milan ha gli stessi ricavi di 15 anni fa. Nel frattempo gli altri top club europei stanno per raggiungere il miliardo di fatturato. Anche noi dobbiamo fare il loro stesso percorso, a partire dall’avere uno stadio nuovo, moderno e visitabile anche quando non c’è la partita. 

    

“Senza fare questo non potremo fare nulla”. La ristrutturazione? “Sarebbe anche possibile, ma fare dei lavori in uno stadio in cui si giocano due partite a settimana è difficile”. Più restio a privarsi del fascino della “Scala del calcio” l’amministratore delegato di Pirelli e tifoso interista doc, Marco Tronchetti Provera: “E’ uno stadio meraviglioso, qui si vedono partite come in pochi altri posti al mondo. Se vogliono, si possono anche fare due stadi di proprietà, però demolire San Siro sarebbe un delitto. Resta un simbolo di Milano. Saremmo tutti felici con un San Siro moderno, e magari la gente sarebbe disposta a pagare anche qualcosa di più. Ricordo qui una delle più grandi emozioni della mia vita: Inter-Spal da bambino, a dieci anni, con mio papà”. Mentre l’ad interista, Giuseppe Marotta, fedele al suo soprannome (Kissinger ndr) preferisce la diplomazia: “Lo stadio non è solo una struttura ma un contenitore di emozioni. Deve essere un po’ una casa e bisogna anche garantire uno spettacolo in campo. Poi che sia fatto qui o là poco importa, l’importante è che ci sia”.

    

E così, alla fine, si torna sempre al punto di partenza. Ma basta veramente la nostalgia per decidere di salvare San Siro? Per Andrea Agnelli, presidente di quella Juventus che per prima ha deciso di costruire il proprio impianto sportivo cambiando, nei fatti, il destino dei propri risultati sportivi ed economici, ovviamente no: “Se dovessi scegliere io vorrei uno stadio moderno e completamente nuovo. Non si può essere nostalgici quando si guarda a quelle che sono le innovazioni e le migliori condizioni per giocare al calcio, serve uno stadio vivo 365 giorni l’anno. Se la decisione dipendesse da me, farei di tutto per avere un impianto completamente nuovo”.

   

Lontano da Milano il tifoso rossonero Matteo Salvini dimostra, almeno a parole, di avere le idee chiare: “Aspetto uno stadio nuovo, ci vuole. Da milanese e da milanista San Siro ce l’ho nel cuore, però sono molto oggettivo, razionale e concreto, mi interessa che le famiglie possano andare allo stadio in totale sicurezza, quindi conto che le società facciano bene e facciano in fretta”. Dopotutto si sa, nell’Italia del cambiamento, non c’è spazio per la storia.

    

Una cosa comunque è certa. Come spesso accade in Italia anche quella di San Siro si sta trasformando, lentamente, in una guerra tra tifosi. Dove uno vale uno e ognuno ha la sua idea di come dovrebbero andare le cose. E allora, forse, ha ragione il presidente del Coni Giovanni Malagò: “Ho sentito diverse campane e diverse interpretazioni. Le parti coinvolte sono tre, cioè le due società e il comune. Si devono chiudere in una stanza, vanno fatte delle valutazioni economiche, devono trovare una soluzione e perseguire quella strada a prescindere dalle opinioni di altri soggetti”. E se proprio dovrà essere, allora, spegneremo anche le “luci a San Siro”.

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