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Applauso alla sera storta (e al calcio per bene) di Gonzalo Higuain

Maurizio Crippa

C’è qualcosa di peggio che sbagliare il rigore? Sì, essere un campione aniconico

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C’è qualcosa di peggio di essere il giocatore più atteso della tua squadra, una squadra che ha solo te per aggrapparsi come a una scialuppa, o a un cavaliere errante. C’è qualcosa di peggio di avere alzato un po’ la voce (ma a mezzo tono, ché di più non ti viene, per indole) con la tua ex squadra padrona del mondo, a cui pure hai dato molto ma alla fine ti hanno spedito come un pacco (“gli è pesato essere mandato via in quel modo, essere fatto fuori. Aveva un peso sulle spalle e questa cosa non gli è andata giù”, nelle parole di quel gran gentiluomo di Pirlo). Di aver tirato male il rigore della speranza. Di aver protestato male per un giallo passabilmente qualsiasi, una cosa che capita. Di aver perso le staffe, una crisi di nervi, un attimo di buio sufficiente a trasformare il giallo in rosso, e gli occhi infuocati di un istante prima in uno sguardo pieno di pioggia, di lacrime, attonito (“era molto deluso appena arrivato nello spogliatoio. Infuriato con se stesso, non voleva assolutamente che finisse così”, nelle parole di Romagnoli, gran bravo ragazzo). C’è qualcosa di peggio, in altre parole, di essere Gonzalo Higuaín, la notte di Milan-Juve?

 

Sì, c’è qualcosa di peggio, nell’epoca del calcio immagine, del calcio fatto di gesti eccessivi e di icone esibite: ed è essere un grande giocatore, un campione, che non riesce a diventare un’icona. Cioè un (s)oggetto di comunicazione globale: un eroe dell’Olimpo come CR7, un dominatore della dialettica come Mou, un gladiatore anarchico come Ibra, un mago formato playstation come Messi. Gonzalo Higuaín, che è uno dei più forti attaccanti della sua generazione, che ha raccolto applausi dalle curve più diverse, che ha segnato 36 gol con la maglia del Napoli e ha vinto (quasi) tutto con la sua ex squadra di Torino è perfettamente aniconico, come direbbero i semiologi o i filosofi dell’estetica. Non produce un’immagine di sé, non si trasforma in un concetto, uno stile, una personalità. Quando non ha la palla tra i piedi – nel momento dell’Evento, quando i colori della maglia e il numero lo fanno essere, lo materializzano agli occhi del pubblico – è come se scomparisse, non ci fosse. Higuaín è i gesti che fa col pallone (o gli atti mancati, a volte). Il resto, anche in campo, sono la stempiatura dei capelli corti, la barba che incornicia due sopracciglia folte e un naso importante ma non presuntuoso, casomai un po’ triste. E’ come un antico bassorilievo di cui abbiamo perso il segreto dell’espressione. L’iconicità, appunto. Che nel calcio globale-digitale non è tutto, ma arrivati a un certo punto, a un passo dall’Olimpo, fa la differenza: quante mezze pippe abbiamo visto arrivare dritte nel cuore dei tifosi, o in cima ai commenti iperbolici dei giornali, per via della ghirba, della garra, della chioma, del bullismo o della simpatia? Sopravanzando altri più bravi, più campioni, ma meno baciati dal Sogno?

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Gonzalo Higuaín detto il Pipita è uno degli attaccanti più bravi in circolazione. E ha anche l’aria (l’aria è tutto) di essere una bella persona, un uomo serio. Consapevole ma anche umile. Sempre con quel filo di tristezza negli occhi (sarà che è un argentino nato a Brest, deve avere assorbito qualcosa di quelle nebbie fredde e inquiete). Forse un po’ timido. Forse troppo emotivo. Uno che interiorizza e soffre, invece di esteriorizzare tutto in urlo, o in spettacolo, un selfie a bordo campo. Ed è il peggio che può capitare, nell’epoca del calcio iconico. Oppure è il meglio, ognuno decida. Ma è quello che gli è accaduto domenica sera. E quello che basta per meritarsi un applauso.

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