Giocatori dell'Nfl protestano contro Trump inginocchiandosi durante l'inno nazionale ameriucano (foto LaPresse)

Tra football ed elezioni di mid-term, Nike riaccende la polemica sull'inno in ginocchio

Stefano Pistolini

Il marchio sceglie come testimonial Colin Kaepernick, quarterback dei San Francisco 49ers e icona della protesta contro le ingiustizie sofferte dagli afroamericani e dalle altre minoranze etniche

C’è un odore misto, di quelli che si sentono nelle cucine di ristorante, in questa storia di Colin Kaepernick che riempie le cronache internazionali. La vicenda: Kaepernick per sei anni è stato un quarterback in servizio per i San Francisco 49ers, con un contratto oltre i 100 milioni di dollari nella ricchissima Nfl, la lega del football professionistico americano. Un buon giocatore in un ruolo chiave, anche se non un fuoriclasse, soggetto a periodici alti e bassi. Nella stagione 2016 Colin Kaepernick, inizialmente spalleggiato soltanto dal compagno di squadra Eric Reid, ma presto imitato da tanti giocatori di altre franchigie (fino a 200 seguaci) ha preso a inginocchiarsi durante l’esecuzione dell’inno nazionale suonato all’inizio delle partite Nfl, in segno di protesta contro i maltrattamenti e le ingiustizie sofferte dagli afroamericani e dalle altre minoranze etniche della nazione. Messo in atto nello sport più tradizionalista e patriottico, il gesto ha sollevato polemiche roventi. Donald Trump ne ha fatto uno dei cavalli di battaglia della sua campagna elettorale, a forza di inviti ad “andare a lavorare” rivolti ai protestatari e sollecitando i presidenti delle squadre a sospendere gli stipendi di questi fortunati miliardari. Morale: a fine stagione Kaepernick e il compare Reid vengono messi alla porta dai 49ers e restano disoccupati, dal momento che nessuna squadra offre loro un nuovo contratto. Lui allora fa causa alla lega, denunciando un patto segreto tra club per boicottarlo e impedirgli d’esprimere le sue capacità. E la causa si farà, perché i giudici hanno trovato sufficienti supporti legali per avviarla.

  

 

Ora il colpo di scena: con una manovra promozionale magnificamente orchestrata, alla vigilia dell’inizio del nuovo campionato Nfl, Kaepernick diventa un volto ufficiale della classica campagna Nike “Just Do It”, “semplicemente fallo”, con un annuncio in bianco e nero centrato sulla sua faccia e sullo slogan: “Credi in qualcosa, anche se significa sacrificare tutto”, lanciato in sincronia con la sua apparizione a pugno chiuso sugli spalti degli US Open di tennis a New York, l’ovazione del pubblico e le dichiarazioni entusiastiche di Serena Williams (“Oggi più che mai sono orgogliosa d’essere parte della famiglia Nike”) e di altre star nere dello sport, LeBron James in testa.

 

La provocazione è fragorosa: la Nike è sponsor unico delle divise di gioco della Nfl, ma l’affare-Kaepernick sottende la volontà del colosso dell’abbigliamento sportivo di spingersi oltre i confini del suo business miliardario (la sola spesa promozionale combinata Nike-Adidas raggiungerà nel 2020 i 10 miliardi di dollari, per dire dell’impatto di queste decisioni), scendendo in campo nella sfera sociopolitica dei suoi consumatori. Alla Nike danno fuoco alle polveri: “Sosteniamo il diritto degli atleti di esprimersi su temi importanti per la nostra società”, mentre già si accendono reazioni virulente, con i video di scarpe bruciate sui social, hashtag come #JustBurnIt e vecchi conservatori come Mike Huckabee pronti a promuovere il boicottaggio del marchio.

 

Da casa Nike però emerge una strategia precisa: “Crediamo che Colin, oltre che un atleta, sia un’ispirazione su come usare il potere dello sport per migliorare il mondo”. Dal momento che non tarderà l’abituale discesa in campo del presidente, si può presupporre un inedito fronteggiamento Trump-Nike in atmosfera pre elettorale per il medio termine, col marchio che, grazie al suo rapporto inossidabile con gli atleti neri e con l’immaginario afroamericano diffuso, e soprattutto grazie ai suoi dollari, potrebbe giocare un ruolo non indifferente sul voto.

 

Di recente la Nike aveva già mostrato interesse nel prendere posizione nelle guerre culturali americane, a cominciare da quella sulla razza, con la campagna “Uguaglianza” - testimonial sempre Serena e LeBron, stavolta in compagnia di un’atleta musulmana americana in hijab (Ibtihaj Muhammad) e di un triatleta transgender (Chris Mosier). Ora il lancio della campagna con Kaepernick è una provocazione rivolta all’America trumpiana e un fattore nuovo in quel bizzarro mix tra business-media-società che compone l’insalata politica americana contemporanea. Intanto Nike lancia la linea “Kaepernick” di scarpe e magliette. E perfino il vecchio nemico Mahmoud Ahmadinejad, ex presidente iraniano, si sente in dovere di schierarsi da oriente, con un tweet da vero appassionato: “Comincia l’Nfl e Kaepernick non ha squadra, anche se è uno dei migliori quarterback”. Niente da fare: comunque la giri, e a tutte le latitudini, non c’è palcoscenico migliore di quello a base di partite, birre e di qualcuno per cui fare il tifo.

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