Cristiano Ronaldo (foto LaPresse)

Non possiamo non dirci Cristiano

Massimo Adinolfi

Prendiamoci Ronaldo, i palloni d’oro, l’ingaggio da favola e il gossip, perché in alternativa ci sono solo populismi e società chiuse, illiberali, devote di Rousseau e spaventate dal futuro. Appunti di filosofia estiva su calcio, denaro e giustizia sociale. Fenomenologia di un capitale della modernità

Rivendicare a sé stessi il nome di Cristiano non va di solito scevro da un certo sospetto di tifo e di partigianeria, perché più volte l’adorazione di quel nome è servita all’autocompiacenza e a coprire cose assai diverse dallo spirito calcistico, come si potrebbe comprovare con riferimenti che qui si tralasciano per non dar campo a giudizi e contestazioni di altre tifoserie distraenti dall’oggetto di questo discorso. Nel quale si vuole unicamente affermare, con l’appello alla storia del calcio degli ultimi anni, che noi non possiamo non riconoscerci in Cristiano, e che questa denominazione è semplice osservanza della verità del nostro tempo”.

  

Prendiamoci tutto questo perché è “semplice osservanza della verità del nostro tempo”, per usare le parole di Croce

Ho cambiato qualche parolina nell’incipit del saggio di Benedetto Croce, e ho messo una maiuscola dove ci voleva: forse così può funzionare lo stesso. Non mi sono svegliato a mezzanotte, però, e questa non è la meditazione notturna di un vecchio filosofo, come quella crociana. Non siamo, del resto, nel mezzo di una guerra terribile, come nel ’42, anche se qualche motivo di preoccupazione lo spirito pubblico lo dà. E forse si può fare qualcosa di simile a quello che aveva in testa il filosofo napoletano, quando accantonava il suo secco giudizio sulle opposte fedi, quella cattolica e quella liberale, per riconoscere ciò che in quel duro frangente della storia era più urgente rivendicare: la grandezza della rivoluzione cristiana, contro la quale infuriavano le potenze barbare del sangue e della razza.

 

Con tutte le proporzioni e la leggerezza del caso, i si parva licet componere magnis e i mutatis mutandis, uno vorrebbe dire: prendiamoci Cristiano Ronaldo, e insieme al suo palmarès di Champions e di palloni d’oro prendiamoci pure la globalizzazione dei mercati, l’ingaggio da favola e le sponsorizzazioni, il merchandising che gli ruota attorno, i 3 milioni di magliette bianconere con il numero 7 che la Juventus conta di vendere, la crescita del brand, l’assalto agli store ufficiali bianconeri, il boom di follower e tutto quanto fa CR7, compresi i gossip sulla sua vita privata, i muscoli, la palestra e le donne, le unghie smaltate e le madri surrogate, prendiamoci tutto questo perché è “semplice osservanza della verità del nostro tempo”, in alternativa alla quale non c’è il campionato più bello del mondo, ma ci sono invece i populismi, i nazionalismi, i sovranismi, società chiuse e spaventate dalla modernità, sempre più aggressivamente illiberali e repressive.

  

   

Prendiamoci Cristiano Ronaldo per l’astronomica cifra di 100 milioni: più il contributo di solidarietà, previsto dalla Fifa (5 milioni), più oneri accessori (un’altra dozzina di milioni), più l’ingaggio di trenta milioni netti a stagione, per quattro anni, più qualche altro benefit qua e là. Mai una squadra italiana aveva speso tanto, e mai un calciatore del campionato italiano aveva percepito uno stipendio così alto. Non è indecente? Non è uno schiaffo alla miseria? Non è un’offesa per tutti coloro che non mettono insieme il pranzo con la cena? Non è abbastanza per scioperare?

 

Un’operazione ingiusta e inaccettabile per il sindacato di base della Fca di Melfi. Ma come e dove si domanda che cosa sia giusto?

In effetti, qualcuno che sciopera c’è: “E’ inaccettabile che mentre ai lavoratori di Fca e Cnh Industrial l’azienda continui a chiedere da anni enormi sacrifici a livello economico, la stessa decida di spendere centinaia di milioni di euro per l’acquisto di un calciatore”. Così recita il comunicato dell’Unione sindacale di base dello stabilimento Fca di Melfi: “Mentre gli operai e le loro famiglie stringono sempre più la cinghia la proprietà decide di investire su un’unica risorsa umana tantissimi soldi! E’ giusto tutto questo? E’ normale che una sola persona guadagni milioni e migliaia di famiglie non arrivino alla metà del mese? Siamo tutti dipendenti dello stesso padrone ma mai come in questo momento di enorme difficoltà sociale questa disparità di trattamento non può e non deve essere accettata”.

 

D fronte a queste domande, si possono prendere tre strade: la prima consiste nel dire che sì, è giusto, e più non dimandare; la seconda consiste nel dire che no, non è giusto, ed è giusto invece scioperare. La terza consiste nel prendere una via più lunga, e mettere tra la domanda e la risposta un nutrito numero di ulteriori domande e riflessioni (che è un po’ quello che si vorrebbe fare qui). Per esempio: come e dove si domanda che cosa sia giusto, di quale giustizia si parli, cosa consegue dal sentimento di giustizia o di ingiustizia, come si ritiene che debba essere promossa la giustizia sociale, e così via. In assoluto, infatti, non può essere giusto che “un’unica risorsa umana” – cioè, salvo errori, una persona: è curioso che gli operai dello stabilimento Fiat mutuino il lessico aziendalistico in un comunicato in cui si rivendicano le ragioni della giustizia e dell’umanità contro quelle dell’azienda e del mercato – guadagni 1.850 volte più di un operaio Fiat. Non è giusto, si dice, anche se Ronaldo fosse 1.850 volte più bravo dell’operaio nel giocare a pallone (cosa probabilmente vera, se mai si potesse misurare numericamente la bravura di Ronaldo). Ma, ragionando ancora in assoluto, cioè del tutto astrattamente, lasciandosi però impressionare dalle cifre, sbarellando per l’enormità dei guadagni, senza riguardo al modo in cui si mettono insieme tanti zeri, lasciando perdere i molteplici effetti di simili investimenti, quanto ai soldi che escono ma pure a quelli che entrano, nelle tasche della società e in tutto ciò che ci gira intorno, si dirà quanto segue. Non è giusto che uno guadagni così tanto più degli altri, e forse nessuna differenza di guadagni è ammissibile, grande o piccola che sia. Vale infatti la legge di Murphy dell’ingiustizia sociale, che può essere coniata per l’occasione.

   


Un mito la purezza delle origini

La ricchezza dell’occidente e la città frugale idealizzata da Platone che si gonfia di “umori malsani”. Il buon calcio di una volta, un’illusione retrospettiva


   

La legge dice che, data una qualunque – dicasi qualunque – condizione sociale, in un paese dell’occidente avanzato, la somma dei beni materiali posseduti dalla persona che si trova in quella condizione definisce sempre un livello di benessere relativo superiore a quello di qualcun altro in altra parte del mondo, a beneficio del quale sarebbe dunque più giusto che quei beni venissero devoluti. Non è giusto che Ronaldo prenda tutti quei soldi, ma, se è per quello, non è giusto nemmeno che ci si possa vedere la partita in tv, mentre c’è chi muore di fame. Di ingiustizie ve ne sono tante nel mondo, e alcune hanno un carattere strutturale che va ben oltre il passaggio di proprietà di Ronaldo. Se poi si vuole colpevolizzare l’occidente, il capitalismo, lo sport ormai asservito al denaro e magari pure la Juventus che non smette di vincere, non c’è bisogno di scomodare l’asso portoghese. Rimanendo nella galassia Fca, sarebbe sufficiente chiedersi per esempio quanto guadagna Vettel, o anche la seconda guida della Ferrari, Raikkonen: si capirebbe subito, che l’alternativa non è contenere gli appannaggi dei campioni, ma in un caso rinunciare alla Formula 1, nell’altro alla Champions League.

 

Una nuova legge di Murphy: la somma dei beni di una persona di una qualunque condizione sociale che viva in occidente definisce un livello di benessere relativo superiore a quello di qualcun altro in altra parte del mondo, a beneficio del quale sarebbe dunque più giusto che quei beni fossero devoluti

 

Ma anche a voler ragionare più in generale della immane sproporzione fra le ricchezze possedute dall’1 per cento della popolazione mondiale e quelle detenute dalla restante umanità, andrebbe proposto un piccolo esercizio mentale, degno anch’esso di Murphy e delle sue leggi. Siano dunque dati i dieci nababbi più ricchi al mondo: Jeff Bezos, il Ceo di Amazon, con i suoi 112 miliardi di dollari (stimati da Forbes), a confronto dei quali i milioncini di Ronaldo, francamente, fanno ridere, e poi, a seguire, Bill Gates e Warren Buffet, Bernard Arnault e Mark Zuckerberg e gli altri. Immaginate ora che, per un improvviso quanto stupefacente atto di generosità, questi dieci primatisti mondiali decidano tutti insieme di donare i loro averi ad un’unica persona (un’unica risorsa umana): una qualunque. Che si metterebbe in tasca in un colpo solo qualcosa come 730 miliardi di dollari circa, spicciolo più spicciolo meno. A quel punto la distanza tra una simile, immensa fortuna e il nostro umile stipendio si sarà fatta ancora più ampia; eppure è evidente che, per noi comuni mortali, non cambierebbe assolutamente nulla. Se poi facciamo compiere un simile, gigantesco dono ai primi cinquanta, anzi i primi cento Paperoni al mondo, il famoso 1 per cento si ridurrebbe ancor di più e la forbice con il restante 99 per cento crescerebbe ancor più scandalosamente, ma in realtà, di nuovo, noi continueremmo a vivere nello stesso mondo di prima.

 

Vediamo allora qual è, questo mondo: esercizio certamente più interessante di quello condotto finora relativamente al carattere più o meno esorbitante delle cifre sborsate per Ronaldo. Per capirlo, forse non è inutile usare come cartina di tornasole un paio di filosofi, Platone e Rousseau, due che a Ronaldo non avrebbero mai dato un euro per fargli calcare un campo di gioco, e che probabilmente avrebbero disprezzato pure il suo stile di vita, il racconto delle sue gesta e lo sport professionistico in genere.

 

Prendiamola dunque alla lontana, anzi alla lontanissima. Torniamo ad Atene. E’ estate, e fa caldo più o meno come oggi. Festa delle Bendidie, al Pireo. A fine giornata, Socrate accoglie l’invito a trattenersi in casa di Polemarco, e lì si lascia coinvolgere in una lunga discussione che prenderà tutta la notte: si comincia dalle ricchezze del vecchio Cefalo, contento di aver accumulato un po’ di quattrini, cosa che gli consente di vivere onestamente e di poter lasciare una cospicua eredità ai figli, e si finisce col parlare di Omero, di ginnastica e musica, del mito della caverna e di molte altre cose ancora. Tutte seguendo un unico filo: che cos’è la giustizia.

 

 

Per dipanare il quale Socrate indossa i panni dell’oikistes, del fondatore di stati, e comincia a raccontare come si può immaginare che nasca una comunità. “Un uomo si mette insieme ad un altro uomo per un bisogno, e un altro ancora per un’ulteriore bisogno, perché entrambi ne hanno molti”: la città nasce per la soddisfazione di questi primi bisogni, cui nessun uomo è in grado di far fronte da solo. Uno ha bisogno di cibo; l’altro ha bisogno di un’abitazione; un altro ancora ha bisogno di vestiti, e così via. Il primo nucleo di questo piccolissimo stato, fondato solo sui bisogni primari, sarebbe però formato ancora da pochi uomini. Ci vorranno però almeno i contadini, i bovari, i muratori, i tessitori, i calzolai, e se poi mancheranno alcuni beni e bisognerà importarli, ci saranno anche commercianti; e se il commercio si effettuerà per mare ci saranno anche marinai, e giocoforza comparirà anche il denaro per regolare il commercio, così come i rapporti di lavoro. A questo punto sembra a Socrate che non manchi più nulla, e così viene abbozzata una prima descrizione di questa città, in cui si faranno ottimi pani di orzo e frumento, si lavorerà seminudi o scalzi ma ben coperti d’inverno, e insomma si vivrà insieme con gioia, “e per timore della povertà e della guerra non si genereranno più figli di quanti ne possano mantenere”. Malthus, quello della dura legge sulla sovrappopolazione, doveva esser già passato di lì.

 

La prima città non esiste, non è mai esistita. Nessuna economia umana ha funzionato senza che fossero circolanti monili e valori immateriali. Platone lo sa così bene, che non ci pensa nemmeno a ripristinare quel buon tempo antico in cui non c’erano letti ma si dormiva “su giacigli di fronde”

Qualcosa però non convince Glaucone. Il quale si accorge che mancano, nella città di Socrate, i mobili e i dolciumi, la pittura e l’arte del ricamo, “e l’oro e l’avorio e tutte le materie preziose di questo genere”. C’è il necessario; manca il superfluo. Mancano i musicisti, i poeti, i cosmetici, i barbieri. Manca anche Ronaldo, evidentemente. Di qui in avanti, dovendo far posto a tutta questa gente nuova, non si tratterà più, per Socrate, della città sana delle origini. E cominceranno i guai, perché da un lato le risorse iniziali non basteranno più, si prenderanno i pascoli dei vicini e ci sarà la guerra, e dall’altro bisognerà trovare, dentro la città, un modo di comporre insieme tutte le nuove attività e i nuovi beni che eccedono la sobrietà naturale: adesso capisco – esclama Socrate – come, cercando di comprendere che cos’è la giustizia, dobbiamo occuparci non di una città e basta, ma di quella città cresciuta a dismisura che vive nell’opulenza e nel lusso.

  

Così la mette Platone, che poi impiegherà altri otto libri della “Repubblica” per mettere ordine in una città ormai “rigonfia di umori malsani”. Incidentalmente: questo rigonfiamento malsano corrisponde esattamente a quello che le economie reali patirebbero a causa della finanziarizzazione dell’economia, dell’enorme volume di attività finanziaria gonfiatasi sopra una base reale in proporzione sempre più ristretta. Ma proprio come è una mossa puramente retorica quella di contrapporre economia reale, locale, e finanza speculativa, mondiale, pensando che la prima è bene e la seconda male (quando semmai si tratta di ragionare del modo in cui sono regolati i mercati finanziari), così è solo un espediente retorico, un trucco, quello di Platone, perché la linea fra la primitiva città frugale e la seconda, in cui ormai c’è molto più del necessario, ci sono molte più ricchezze ma anche nuove povertà, è stata già da sempre varcata dall’uomo. La prima città non esiste, non è mai esistita. Nessuna economia umana, in quanto umana, ha funzionato senza che fossero circolanti monili e valori immateriali. Platone lo sa così bene, che non ci pensa nemmeno a ripristinare quel buon tempo antico in cui non c’erano letti ma si dormiva “sdraiati su giacigli di fronde”. Persino nella città ideale di Platone, infatti – quella del comunismo delle donne e dei figli, con i re-filosofi o i filosofi-re – i letti ci sono e come.

   


Rousseau e la disuguaglianza fonte delle ricchezze, con le scienze e le arti che corrompono le anime. L’illusione di poter buttar via Ronaldo e tenersi le partite. L’abbaglio di quelli che non vogliono lo star system della società dello spettacolo né che un campione di calcio diventi un mito popolare


 

Non ci sono però, è vero, i nostri materassi a molle, in lattice o addirittura ad acqua. Li mettiamo dunque dalla parte del lusso superfluo? Difenderemo il modo naturale di dormire? Non saranno i giacigli di fronde, ma allora cosa? E c’è un materasso su cui sarebbe giusto che noi tutti dormissimo, e il di più, cioè per esempio una nuova schiuma particolarmente elastica e rigenerante, diciamo che viene dal maligno? Quindi che facciamo: fermiamo lo sviluppo del prodotto? E se infine la Juve vuol investire un mucchio di soldi per far dormire tutta la rosa su materassi ultima generazione, che poi magari ci vince l’ennesimo scudetto coi suoi campioni tutti belli, riposati e rilassati, noi che facciamo: scioperiamo? Ritiriamo la squadra dal campionato?
Dopo Platone, Jean Jacques Rousseau. Il ginevrino, oggi inaspettatamente sugli scudi grazie alla piattaforma Casaleggio, mito dei pentastellati per quell’idea che la democrazia rappresentativa non è vera democrazia, è anche l’autore, nel 1750, del celeberrimo “Discorso sulle scienze e sulle arti”, con il quale balzò agli onori del mondo, perché alla domanda formulata dall’Accademia di Digione “se il rinascimento delle scienze e delle arti abbia contribuito alla purificazione dei costumi”, Rousseau rispose, con fiero spirito anticonformista, di no, per niente affatto: “Le nostre anime si sono corrotte a misura che le nostre scienze e le nostre arti sono progredite verso la perfezione”.

 

Rampogna eterna. Ovunque arrivi la civiltà umana e il progresso, si troverà sempre un grillino che si scandalizzerà per l’enorme e ingiusto spreco di fortune, di ricchezze e di talenti, per la prosopopea degli scienziati (vedi alla voce vaccini) e i privilegi e il lusso della casta (vedi alla voce vitalizi)

E siccome non bisognava aver dubbi, in mezzo ai molti esempi tratti dai costumi dei popoli antichi, Rousseau scelse con chiarezza da che parte stare: con Sparta, contro Atene. Con le squadre di provincia, contro le multinazionali del calcio. Qui marmi rari e calciatori superpagati, lì atti eroici e eroiche salvezze all’ultima giornata di campionato: “O Sparta, rampogna eterna alla vana dottrina! Mentre i vizi apportati dalle belle arti s’introducevano insieme in Atene, mentre un tiranno vi raccoglieva con tante cure le opere del principe dei poeti, tu cacciavi dalle tue mura, le arti e gli artisti, le scienze e gli scienziati”. Cacciavi pure Ronaldo, beninteso: anzi non lo facevi proprio venire. Rampogna eterna, comunque, vuol dire che ovunque arrivi la civiltà umana e il progresso, si troverà sempre un grillino che si scandalizzerà per l’enorme e ingiusto spreco di fortune, di ricchezze e di talenti, per la prosopopea degli scienziati (vedi alla voce vaccini) e i privilegi e il lusso della casta (vedi alla voce vitalizi).

 
Siamo, intanto, in pieno Settecento, e alla Rivoluzione non manca molto (a quella grillina non si sa, anche se sono ormai al governo). Da una parte tiene ancora il campo la vecchia guardia conservatrice, tradizionalistica e moralistica, per la quale lusso significa vizio, ozio e corruzione; dall’altra va facendosi strada una nuova mentalità, utilitaristica e libertina, per la quale invece la privatissima ricerca della felicità e del piacere giova non solo ai casi propri, ma pure alla salute complessiva della res publica. Agli inizi del secolo, del resto, Bernard de Mandeville si era già inventato quella favola dei vizi privati e delle pubbliche virtù, per cui lo stato andava in rovina quando pretendeva di imporre per legge la virtù, mentre prosperava quando prevalevano i comportamenti dettati dal vizio, dall’egoismo o dall’avarizia. Mandeville era lo stesso che in quegli anni faceva, con buoni argomenti, l’apologia del lusso. Come anche Voltaire, che non è tanto quello a cui viene (erroneamente) attribuita la nobile frase: “Non sono d’accordo con quello che dici, ma darei la vita perché tu lo possa dire”, quanto piuttosto quello che scriveva disinvoltamente versi come questo: “Amo il lusso e anche la mollezza / Tutti i piaceri, le arti di ogni specie / Il decoro, il gusto, gli ornamenti”: versi che, tolta forse la mollezza, poco adatta a uno che fa esercizi ginnici prima di andare a dormire per riprenderli immediatamente al risveglio, per il resto è probabile che non dispiacerebbero affatto a Cristiano Ronaldo.
Ma dicevamo Rousseau. Per lui i rapporti sono chiari: “La prima fonte del male è la disuguaglianza; dalla disuguaglianza sono venute le ricchezze. […] Dalle ricchezze sono nati il lusso e l’ozio; dal lusso sono venute le belle arti e dall’ozio le scienze”. Il che dovrebbe significare che, se percorressimo a ritroso la storia, e togliessimo dapprima di mezzo le arti e le scienze, eliminando poi il lusso e l’ozio, infine requisendo le ricchezze, ripristineremmo l’uguaglianza dello stato di natura. Persino Rousseau, bontà sua, si convinse, a un certo punto, che forse era un po’ troppo, e che non si poteva fare tutti macchina indietro. Così ammise che “non si è mai visto un popolo corrotto tornare alla virtù”, per aggiungere però subito dopo, abbastanza profeticamente, “a meno di qualche grande rivoluzione quasi altrettanto temibile del male che potrebbe guarire”.

  
Anche se guarda in avanti, rivoluzione significa tuttavia che la storia compie un giro completo e torna a una condizione originaria, naturale, ancora incorrotta. Orbene, vi sono due cose che in questa idea non funzionano. La prima è che quell’attimo di pura felicità iniziale non c’è mai stato. Persino le partite di calcio dal vivo, che mio padre (non solo lui) diceva che erano un’altra cosa che guardarle in tv, sono diventate dal vivo e hanno preso il fascino ineguagliato di partite dal vivo solo dopo l’invenzione della tv: solo, dunque, per un’illusione retrospettiva, di cui siamo naturalmente vittime. E’ la stessa cosa per i bei tempi della domenica con tutte le partite della serie A in contemporanea, o per i calciatori che non sono più le bandiere di una volta, legati a vita a un’unica maglia: tutti effetti di quella che Bergson chiamava l’azione retrograda del vero (e retrograda vuol anche dire che chi ne rimane vittima regredisce: non c’è dubbio). Stesso trattamento merita il passo più famoso di tutta l’opera rousseauiana, quello sull’origine della diseguaglianza fra gli uomini: “Il primo che, avendo cinto un terreno, pensò di affermare: questo è mio, e trovò persone abbastanza semplici per crederlo, fu il vero fondatore della società civile” e, così, di tutti i mali. Quel primo uomo, però, e quel comunismo originario in realtà non ci sono mai stati.

 


 

La seconda cosa è che, se anche potessimo tornare a un mitico status quo ante, non sarebbe per nulla l’ideale in cui vorremmo vivere noi oggi. Un mondo senza Ronaldo è anche un mondo senza partite di calcio: se pensate che potete buttare via il primo e tenervi le seconde vi sbagliate di grosso. Se pensate che vi appassionereste allo stesso modo alle genuine partite fra scapoli e ammogliati che si disputano nel campetto sotto casa vostra – a proposito, perché non vedere quelle, anziché andare allo stadio o farsi l’abbonamento Sky? – beh, non sapete per nulla cos’è il tifo, come si mette in campo una squadra e quanto costa competere.

 

Un unico filo lega insieme Platone, Rousseau e pure il pedagogista contemporaneo: sono tutti, in primo luogo, degli educatori. Anzi: dei rieducatori. Ogni volta c’è un’ideale rettitudine di costumi, un modo per conservare integri il corpo e lo spirito, una protesta contro la volgarità pacchiana dei tempi, e dei soldi

Poi, certo, non si vuol mica dire che il mondo è irriformabile, e le cose vanno nell’unico modo in cui possono andare. Ma se scioperate perché la Juventus ha speso 100 milioni per comprare Ronaldo, se trovate moralmente inaccettabile il modesto obolo di 30 milioni, voi non volete riformare questo mondo: voi lo volete abolire (oltre a tenere per una squadra diversa dalla Juve). Voi volete un mondo in cui lo sport torna a essere una nobile attività dilettantesca e decoubertiniana, in cui il business e lo spettacolo non hanno la benché minima influenza sul rettangolo di gioco, e in cui giocoforza non alleverete più un atleta con i muscoli e la classe di Ronaldo. E poi non volete un sacco di altre cose: non volete un’economia che ruota intorno al profitto, non volete lo star system della società dello spettacolo, non volete che un campione di calcio diventi un mito popolare, magari non volete neppure che i ricchi siano belli, e di sicuro non volete che la gente si appassioni a un gioco che giudicate falsato, in cui vincono di regola i più forti, ma i più forti sono quelli che hanno i soldi.

 
Questa, poi, è l’ultima ragione per cui non possiamo non dirci Cristiano. In difesa delle persone comuni, non solo dei legittimi guadagni del campione portoghese. Perché si dicono Cristiano, e si scattano selfie con la sua maglietta, quelli che tengono per la squadra che – come ha scritto Sandro Veronesi – è “la squadra del tifo inconsapevole / degli operai che tifano per il padrone, / dei poveri che pagano i lussi del ricco, / degli emigranti che vogliono rimanere italiani, / degli immigrati che vogliono diventarlo, / dei terroni che lavorano per la Savoia, / dei preti, dei montanari, dei marinai, dei poliziotti”.

 
Dal punto di vista del probo Jean Jacques, e non solo di lui, non si potrebbe dir meglio come lo sport, il tifo, il mito sportivo, facciano quello stesso che fanno per il ginevrino le scienze e le arti: stendono “ghirlande di fiori, meno dispotiche e forse più potenti, sulle catene di ferro ond’essi [gli uomini consociati] son carichi”. Solo che per spezzare quelle catene, posto che di catene si tratti, bisognerebbe buttare via pure l’umanità che da esse è avvinta. O almeno spegnergli il televisore. Devi inventarti un’altra società, insomma, ma pure un’altra vita quotidiana. Forse devi pensare, per esempio, che anziché precipitarsi nello store ufficiale della Juventus, “la famiglia può lasciarsi permeare da una vita culturale arricchita d’esperienze formative e educative: assistere a un concerto di musiche barocche, a un balletto di danza classica […], la lettura di un libro oppure una vacanza a Weimar – per girovagare nei boschi intorno al giardino della casa di campagna di Goethe dove leggere le sue poesie sull’amore”: chi scrive, che ci crediate o no, verga queste nobili, alate parole in uno dei più diffusi manuali di pedagogia generale in uso nelle nostre università (ma questa è un’altra storia).

 
Ecco, però: quando avremo educato i nostri figli a passeggiare contemplativi nei boschi intorno a Weimar, forse potremo rinunciare alle paginate su Ronaldo o su Messi, alla finale mondiale trasmessa per un miliardo di persone e alla fiera di vanità del calciomercato. Ma fino ad allora, fino a quando non ci saremo convertiti tutti all’ascolto religioso di musiche barocche, non servirà a molto indignarci per il pacco di milioni che CR7 si porta a casa.

 
Che poi, a ben riflettere, un unico filo lega insieme Platone, Rousseau e pure l’illustrissimo pedagogista contemporaneo che non teme il ridicolo: sono tutti, in primo luogo, degli educatori. Anzi: dei rieducatori. I quali pensano immancabilmente ai problemi dell’educazione a partire dai guasti che sarebbero comportati dagli attuali modelli educativi: a Platone non piaceva Omero, a Rousseau non piaceva Atene, al nostro severo professore sicuramente non piacerà Cristiano Ronaldo. Ogni volta c’è un’ideale rettitudine di costumi, un modo per conservare integri il corpo e lo spirito, una protesta contro la volgarità pacchiana dei tempi, e dei soldi.

 
Vuol dire infine che non c’è niente di meglio del panem et circenses? Non credo. Vuol dire piuttosto dare qualche credito anche ai molti: che tifano e vanno allo stadio, comprano la maglietta e chiedono l’autografo. E di domenica a volte votano anche.
(Qui, è vero, dati i tempi che corrono, la fiducia un po’ si incrina; la penna si ferma, l’articolo finisce coi puntini sospensivi).