Il tennista scozzese Andy Murray (foto LaPresse)

Feroce e cattivo, finalmente Murray non è più solo "il migliore al mondo dopo gli altri tre"

Giorgia Mecca
Il tennista scozzese ha superato Novak Djokovic nella classifica Atp. Il ragazzo ispido, elettrico e nervoso è il nuovo numero uno. Meritato e inatteso, il primo posto arriva dopo anni passati a sentirsi dire che non sarebbe mai stato come Federer, Nadal e Nole.

“I'm getting’ closer”. Era l'8 luglio 2012 e Andy Murray, sul centrale di Wimbledon, aveva appena perso la finale contro Roger Federer, il re che si pensava fosse pronto all'abdicazione e che invece ancora una volta si era rimesso la corona in testa. “Dovresti essere orgoglioso di te stesso” gli disse un commentatore “te lo sei meritato”. Aveva ragione: per Andy era la prima finale a Wimbledon, la cattedrale dei gesti bianchi, sul campo centrale e soprattutto contro il Signore del Giardino, non c'era proprio niente di cui rimproverarsi. La verità che lo stava ossessionando, però, era che aveva perso, ancora una volta.

 

 

Andy Murray è un ragazzo ispido, elettrico, nervoso. E’ il più cattivo del circuito, trascorre metà del tempo che passa in campo a imprecare contro la prima cosa che gli viene in mente. L'anno prossimo compirà trent'anni eppure quando gioca sembra un ragazzino a cui nessuno ha insegnato come ci si comporta. Fuck, fuck, fuck, “e adesso con chi ce l'ha?”, si domandano nel suo box. Non lo sa nemmeno lui: quanti pugni in testa, quante occasioni mancate. Quante palline ancora avrebbe dovuto colpire per smetterla di giocare contro se stesso?

 

“I'm gettin' closer”, ha detto quel giorno, ringraziando i presenti coi denti stretti, a bassa voce. “Sarà difficile riuscire a dire qualcosa”. Infatti le parole gli si sono fermate in gola, è scoppiato a piangere, ininterrottamente, per più di tre minuti, mentre dagli spalti l'algida e onnipresente Judy, sua madre, si disperava assieme a suo figlio, in lacrime anche lei. Un quadretto per nulla british. Andy guardava quella maledetta erba sotto ai suoi piedi e non riusciva nemmeno più a parlare. Come ci si sente a dare il proprio meglio ogni giorno, per tutta la vita, da una parte all'altra del mondo, con la consapevolezza che anche questa volta non sarà abbastanza? La frustrazione, ecco cosa ha imparato Murray giocando a tennis.

 

Quando era piccolo, nelle partite contro suo fratello Jamie, non ha mai vinto neppure una volta: fuck, fuck, fuck, e intanto pensava, lasciate almeno che mi maledica in pace.

 

Davanti a lui ci sono sempre stati monumenti che parevano incrollabili. Eterni per quanto possa durare l'eternità fallibile dello sport. Djokovic, Nadal, Federer, sempre loro, ogni volta. I tre favolosi. Una tortura per un quarto moschettiere che sembrava destinato a non trasformarsi mai in D'Artagnan. Lui, il miglior giocatore al mondo dopo quegli altri, si tirava ancora la racchetta sulle ginocchia per poter urlare più forte la sua frustrazione.

 

“I'm gettin' closer”, ha ripetuto più volte, mentre desiderava solo uscire da quel campo, lanciare la racchetta chissà dove e finirla con quel massacro. Quella domenica Roger Federer, in piedi di fianco a lui, applaudiva cercando di non far cadere il trofeo che aveva appena vinto per la settima volta. Era intenerito e imbarazzato, sapeva benissimo cosa stava provando il suo avversario, conosceva anche lui la delusione dei secondi, prima o poi la conoscono tutti. Aveva pianto allo stesso modo durante la finale degli Australian Open del 2009 persa contro Rafael Nadal. Prima o poi perdono tutti. “Sono sicuro che vincerai anche tu, almeno uno Slam”, disse, abbracciando lo scozzese. Voleva essere gentile, non lo fu per niente. Ma Murray era ormai abituato, finito per caso in mezzo ai “fab four”, i migliori quattro giocatori al mondo, lo aveva intuito anche lui che si trattava di un equivoco, chissà qual era davvero il suo posto nel tennis. Esattamente due mesi dopo, l'8 settembre, agli Us Open di New York, Murray, dopo quasi cinque ore di battaglia riuscì a vincere il suo primo Slam della carriera contro Novak Djokovic.

 

 

“Com'è stato arrivare fin qui?”, hanno chiesto il 7 agosto di quest'anno a Tania Cagnotto, che aveva appena vinto il suo primo argento olimpico a Rio. Lei, che aveva già deciso di ritirarsi, ha risposto perentoria "E’ stato feroce". Feroce, nient'altro che questo. La tuffatrice italiana, che ha dovuto competere tutta la vita contro le imbattibili cinesi, era felice ma stanca, stremata, non vedeva l'ora di uscire dalla vasca. Andy Murray, dopo tutte quelle lacrime versate davanti al mondo, ha vinto gli Us Open, due volte Wimbledon e due ori alle Olimpiadi. Adesso, che è diventato il numero uno al mondo vincendo il torneo di Parigi Bercy e superando Novak Djokovic e tutti gli altri, ha finalmente trovato il posto giusto nel suo mondo, smettendo per un attimo di maledire se stesso e questo sport.

 

 

Com'è stato arrivare fin qui? A questa domanda probabilmente risponderebbe come ha risposto Tania Cagnotto: è stato feroce, soprattutto feroce. Federer gli ha scritto “Benvenuto Sir”. Non sei più il primo degli sconfitti, Godot è finalmente arrivato. Goditela Andy, anche se magari, come hai detto tu stesso, potrebbe durare una sola settimana.

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