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Se i proprietari del Leicester avessero rispettato il fair play finanziario non sarebbero campioni d’Inghilterra

Il patron thailandese Srivaddhanaprabha ha perso 100 milioni di sterline in pochi anni. Le regole volute dalla Uefa in realtà fanno vincere sempre le solite big: lo studio dell'economista dello sport della University of Michigan, Stefan Szymanski.
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Roma. Stanno scorrendo fiumi d’inchiostro per celebrare, giustamente, l’impresa del Leicester City di Claudio Ranieri per la vittoria, al di là di ogni pronostico, della Premier League. In molti, non a torto, l’hanno definito un miracolo e descritto come il più grande successo sportivo di sempre, i tifosi di tutto il mondo si sono appassionati alla cavalcata vittoriosa degli sfavoriti Foxes contro colossi come l’Arsenal, il Manchester United, il Chelsea e il Manchester City. La stagione del Leicester, che è la trama già scritta di un film, sembra anche il simbolo della rivincita del calcio povero su quello ricco, della passione dei tifosi sul business dei diritti tv, dell’oculatezza nelle spese rispetto allo sperpero dei grandi club, dell’investimento sui giovani rispetto agli stipendi folli dei campioni. Insomma, lo sponsor perfetto a favore del fair play finanziario, quel sistema di regole introdotto dall’Uefa per rendere i bilanci delle squadre più contenuti e sostenibili e per ridurre le disparità finanziarie tra le società. Insomma, per rendere i campionati più competitivi.

 

In realtà il fantastico successo del Leicester ci suggerisce l’esatto contrario. La squadra delle Midlands è stata acquistata nel 2010 da Vichai Srivaddhanaprabha, un businessman thailandese con un patrimonio di circa 3 miliardi di dollari (è certamente nel top 1 per cento più che nel lumpenproletariat) e un nome più difficile da pronunciare per gli italiani di quello della sua squadra. Il thailandese, da quando ha preso il Leicester nella seconda divisione inglese, ha investito senza badare a spese, macinando in quattro anni circa 100 milioni di sterline di perdite, oltre ai soldi sborsati per comprare la squadra. La gestione finanziaria del club è finita sotto i radar della Lega, ma gli stringenti parametri del financial fair play sono stati superati grazie a un poco trasparente accordo con una società, la Trestellar, secondo alcuni indizi riconducibile alla proprietà, che avrebbe permesso di gonfiare i ricavi, e quindi ridurre le perdite, attraverso una sponsorizzazione invece che una ricapitalizzazione. In questo modo la proprietà avrebbe potuto aggirare la norma che impedisce di finanziare direttamente il deficit sponsorizzando sé stesso. Il ricorso a escamotage del genere, peraltro già visto in altri club e in altri campionati, è la dimostrazione di quanto le regole volute da Michel Platini (che ultimamente ha avuto problemi di fairness finanziaria tutti suoi), penalizzino proprio le società che vogliono investire per crescere e contendere il vertice alle big.

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Stefan Szymanski, un economista dello sport della University of Michigan, scrive che il fair play finanziario non ha nulla di “fair”, le sue regole riguardano l’efficienza economica ma limitano la concorrenza in un gioco che di per sé tende all’oligopolio e al dominio di poche squadre. L’obiettivo di questa specie di “fiscal compact” del calcio non è quello di mettere tutte le squadre sullo stesso livello, ma di frenare la crescita dei salari dei calciatori e stabilizzare i bilanci delle società rendendo più difficili i fallimenti. Ma, come giustamente sostiene Szymanski, il calcio è diventato lo sport più ricco e popolare al mondo senza avere eccessive regolamentazioni, grazie alla sua natura fortemente competitiva e alla capacità di reggere e assorbire i default di qualche club.

 

Impedendo di fare deficit per lunghi periodi, come ha fatto il proprietario del Leicester, ma come prima di lui hanno fatto gli sceicchi e i russi che hanno acquistato squadre come il Manchester City o il Chelsea che non vincevano da 50 anni, il fair play finanziario non fa che ingessare la situazione esistente: chi ha già fatturati elevati può continuare a spendere e vincere, mentre chi ha un giro d’affari basso continuerà a competere lontano dalla vetta. Se queste regole fossero state applicate nei decenni passati, il Milan di Berlusconi sarebbe rimasto in serie B, il Real Madrid di Pérez non sarebbe diventato quello dei Galácticos, non avremmo avuto il Chelsea di Abramovich e neppure il Napoli di Maradona, visto che Ferlaino l’ha comprato a debito facendo il più grande investimento della storia della società.

 

Sono tutti, compreso il Leicester,  casi di “doping finanziario”, una definizione infelice di investimenti e iniezioni di capitali che, a differenza di quelle nelle vene degli atleti, non fanno male a nessuno. Anzi introdurre più soldi nel sistema rende tutti più ricchi, comprese le piccole squadre che possono vendere i propri campioncini a prezzi più alti a nuovi investitori. Le restrizioni imposte dalle istituzioni calcistiche impediscono che un riccone possa investire per anni in perdita per portare una squadra di provincia ai vertici del campionato. Se la favola del Leicester è diventata realtà, in parte, è dovuto al fatto che un miliardario thailandese non è stato fair dal punto divista finanziario

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