Alcolica Amstel. La Gold Race e quella paura di fare l'impresa
Cinquantunesima edizione per la classica del nord più giovane. "Non è una gara è una corsa a eliminazione. Ho curvato più volte oggi che in tutta la stagione. Sono storno come dopo un’ubriacatura”, la descisse Anquetil dopo essersi ritirato durante la prima edizione. La vittoria di Knetemann e il rapimento alcolico.
Amstel è fiume. Trentuno chilometri, attraversa la città di Amsterdam e sfocia nella baia di Ij. Nome olandese antico: Aeme stelle, luogo di acque abbondanti. Amstel è birra. Beiersche Bierbrouwerij in origine, 1892, Heineken dal 1964. Lager soprattutto: colore dorato intenso, punte dolci al primo sorso, leggermente amara in bocca poi. Esportazioni in tutto il mondo, immancabile in Olanda. Amstel è anche corsa, strade, biciclette, Gold Race. E’ parentesi olandese della campagna del nord del ciclismo professionistico. E’ la ragazzina delle classiche, una ragazzina che raggiunge appena le cinquantuno edizioni: adolescenza in uno sport che vede centenarie in gran forma ancora richiamare milioni di appassionati sulle strade.
Hermann Krott ha poco più trent’anni nel 1965 quando fonda l’Inter-Sport con Ton Vissers, di una decina di anni più vecchio ma con la stessa passione per il ciclismo. I due sono anni che escono in bicicletta per le campagne olandese, da anni che guardano il Belgio e tutte le sue corse e dicono che i cugini belgi sono fortunati ad avere tutti quei campioni che lottano tra di loro in primavera. Dicono che L’Olanda non può rimanere spettatrice e deve mettersi in mostra, perché se è vero che il Belgio è storia del pedale, i panorami e le strade olandesi non sono da meno: sono belli e cattivi come e forse di più di quelli valloni. E poi con la loro organizzazione superare i belgi sarà un giochetto. A fine di quell’anno ottengono la sponsorizzazione della Amstel e di un’altra decina di aziende. La corsa si farà. Si chiamerà Gold Race e sarà un evento.
L’Amstel è un budello di curve, di strade che non raggiungono i due metri, di dossi artificiali, strettoie. E’ tensione nervosa, una lotta snervante per stare davanti, attenzione spasmodica. Staccare la spina è impossibile, distrarsi può voler dire addio alla corsa. Serve abitudine alla lotta. Chi non regge si ubriaca di curve.
La strada è questo, il resto è festa. Attorno ai corridori che animarono la prima edizione si schierano in trecentomila. Raddoppiarono l’anno dopo. Quadruplicarono nel 1968. Nel 1996 il giornalista francese Remy Proist rimase in Olanda oltre una settimana per raccontare la gara per il quotidiano belga Soir. Seguì la corsa con i tifosi. Non scrisse l’articolo che aveva concordato. Si riprese solo il giorno dopo. Iniziò così: “L’Amstel è un delirio mai visto. La non corsa più pazzesca che c’è. I corridori lottano. C’è chi scatta, chi va in crisi. C’è chi vince e chi perde come in tutte le corse al mondo. Lo spettacolo però è al di là delle transenne, nelle centinaia e centinaia di ritrovi nelle campagne limitrofi”. Quell’edizione la vinse il nostro Stefano Zanini (prima di sei vittorie italiane). Lo fece con un assolo cattivo e frizzante, alcolico. Al di fuori della corsa, mentre Proist si perdeva nei festeggiamenti, oltre un milione e mezzo di appassionati occupava le zone attorno a Maastricht. Due anni dopo la provincia del Limburgo stimò in 2,8 litri il consumo a persona di birra nel giorno della corsa. Un’ubriacatura collettiva, ciclistica. Perché al nord, in Olanda come in Belgio, le classiche sono giorno di festa nazionale: i ciclisti passano, i paesi si fermano, i tifosi festeggiano.
Proist nel suo racconto parla di un ritrovo diffuso, di griglie fumanti e litri e litri di birra. Tutto scorre tra chiacchiere e corridori. Anquetil nel 1970 racconta all’Equipe le sue campagne del nord: “Il Fiandre e liturgia, la Roubaix un massacro, la Liegi un banchetto, ma è all’Amstel, al di là della corsa, che i corridori scoprono un paese dei balocchi”. Il campione francese parla del dopo corsa, delle feste imbastite dagli organizzatori: “Entri in un mondo surreale dove non c’è più differenza tra ciclisti e tifosi: i racconti sono collettivi, come i brindisi”.
Forse è anche per questo che ormai da diversi anni i corridori aspettano il Cauberg, l’ultima ascesa per piazzare il colpo giusto, per provare a ottenere la corsa.