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Cosa vi siete persi, se non avete mai visto Crujiff rivoluzionare il calcio

Maurizio Crippa
Cosa vi siete persi, scrissero sul muro del cimitero di Napoli quando Maradona vinse lo scudetto. Ma non è la stessa cosa. Cosa si sono perse, le generazioni che non hanno visto l’Arancia a orologeria dominare, volare e perdere nel 1974, nei primi Mondiali a colori, elettrici e fosforescenti, della tivù italiana.
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Cosa vi siete persi, scrissero sul muro del cimitero di Napoli quando Maradona vinse lo scudetto. Ma non è la stessa cosa. Cosa si sono perse, le generazioni che non hanno visto l’Arancia a orologeria dominare, volare e perdere nel 1974, nei primi Mondiali a colori, elettrici e fosforescenti, della tivù italiana. Cosa si è perso chi non ha visto l’Ajax giocare un gioco che non era più il calcio, era un altro modo di intendere lo sport e la vita, la corsa e la tecnica, era l’utopia del collettivo che senza fatica apparente trasfigurava l’individuo. Sarebbe piaciuto a Majakovskij. E in mezzo – anzi da ogni parte del campo, come se un fluido pianosequenza lo tenesse sempre al centro dell’inquadratura, ma era lui che guidava l’inquadratura – il numero 14.

 

Tre numeri oltre il totale della squadra, e allora non si usava, ma a lui dovettero permettere anche la rivoluzione dei numeri. A Johan Crujiff. Chi se l’è perso, qualcosa lo può recuperare su Youtube, ma è poco. Non bastano i gol, i doppi passi e le accelerazioni, per capire. L’essenza di quel che si è perso sta invece in qualche raro video dedicato al suo esterno destro. Il più difficile dei colpi, che era il suo più naturale e ineffabile. I controlli impossibili, gli assist, i lanci da quaranta metri. Esterni liftati, curve dalla sezione aurea. Vent’anni dopo, il destro di Beckham è stato una manieristica versione 2.0, senza la stessa urgenza, senza totalità.

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Cosa ci siamo persi – assieme a quello spettacolo che non era più soltanto calcio – è l’irriverenza, il senso di onnipotenza di un’intera generazione che giocava dentro e fuori dal campo senza più ruoli e gregari, né avversari se non il proprio limite fisico. Senza regole, se non quelle dettate dalla propria età dell’innocenza. “La palla è una sola, quindi è necessario che tu la abbia”, disse. Lui, il numero 14, a smentire che il calcio totale fosse solo muscoli e disciplina di Rinus Michels. Tre Palloni d’oro, otto scudetti e tre Coppe dei campioni in Olanda; una Liga in campo col Barcellona e quattro in panchina; la Coppa dei campioni in panchina. La sua storia di dirigente intelligente e innovativo, di uomo di potere abile. Gli altri grandissimi, da Pelé a Messi, sono stati solo calciatori, pedine sul campo del calcio del loro tempo. Lui il calcio l’ha trasformato.

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“Il più grande uomo di calcio di sempre, facendo la media tra il giocatore, il tecnico e il filosofo”, ha scritto Sandro Modeo. Quello che ci saremmo persi – senza il suo sogno cocciuto di andare a Barcellona, e non a Madrid, e poi di impiantarvi come un mutazione genetica un calcio che lì non esisteva, con uno stile libertario che ai tempi di Franco non era pensabile – è il Barça di oggi. Non esisterebbe.

 

Quello che ci siamo persi è il figlio della donna delle pulizie dell’Ajax, che lasciò la scuola a 14 anni ma è diventato un uomo pubblico senza complessi, se non di superiorità, e quasi un uomo politico dalla lingua tagliente. E un moralista severo, che sbottò con Romario: “Non dovrebbe tirar così tardi la notte”. E quello: “Chi crede di essere, mio padre?”. Un giorno litigò in campo con Jorge Valdano, altro filosofo del calcio, ma un’altra scuola di pensiero. “Mi venne vicino e mi chiamò: ‘Quanti anni hai ragazzo?’. Dissi 21. Mi rispose: ‘A 21 anni, a Johan Cruijff, si dà del lei”. Ci siamo persi questo fuoriclasse.

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