“Quello del tennis”, perfetta e insufficiente definizione di Gianni Clerici

Giorgia Mecca
Durante una festa organizzata in occasione del Premio Strega del 1966, la padrona di casa Maria Bellonci, avvicinandosi con interesse verso l’unico tra gli invitati che non conosceva personalmente, gli chiese con interesse: “Lei è quello del tennis?”. A Gianni Clerici nel corso degli anni fecero così tante volte quella domanda che ha deciso di intitolare così il suo ultimo libro, la sua biografia: “Quello del tennis” (Mondadori).

Durante una festa organizzata in occasione del Premio Strega del 1966, la padrona di casa Maria Bellonci, avvicinandosi con interesse verso l’unico tra gli invitati che non conosceva personalmente, gli chiese con interesse: “Lei è quello del tennis?”. A Gianni Clerici nel corso degli anni fecero così tante volte quella domanda che ha deciso di intitolare così il suo ultimo libro, la sua biografia: “Quello del tennis” (Mondadori). Era stato candidato al più importante premio letterario italiano da due dei suoi maestri, Mario Soldati e Giorgio Bassani per un romanzo intitolato “Fuori Rosa”, la storia di un ex calciatore. “Purtroppo scrive di sport”, commentò una volta Italo Calvino. Quello del tennis scriveva, tra l’altro, di calcio, di sci e di ciclismo; da Londra aveva intervistato il principe Filippo e  scritto un pezzo su un gruppo inglese che forse avrebbe fatto la storia, non si chiamavano ancora Beatles. “Sciagurato!”, gli gridava Soldati e sapeva che quel ragazzetto elegante, nato signorino, sarebbe diventato uno scrittore.

 

Nella redazione del Giorno capitava spesso che il suo direttore Gaetano Baldacci gli chiedesse se non pensava di esagerare con certi suoi aneddoti. Clerici non capiva e continuava con le sue divagazioni, parlava di tennis e di tutt’altro. Gianni Brera probabilmente rideva di nascosto. L’aveva voluto lui alla Gazzetta dello Sport quando ne era direttore; Clerici  aveva 19 anni e non sapeva cosa fare della vita. Giocava a tennis, nel 1953 riuscì ad accedere al primo turno di Wimbledon, ma perse subito. Ci ritornò tre anni dopo come inviato per il Giorno; era il primo giornalista italiano della storia accreditato per il torneo. In sala stampa c’erano trenta tavolini e altrettanti giornalisti di tutto il mondo: Gianni si vergognava un po’, dopotutto arrivava dalla provincia. Londra però sarebbe diventata la sua seconda casa: erano gli anni di Pietrangeli e della sua semifinale contro Rod Laver, e poi Connors, Ashe, e quel tie break tra Borg e McEnroe. Clerici chiese di non occuparsi più di calcio,  Brera non si oppose, anzi un sera gli confessò di essere molto stanco: aveva scritto articoli commoventi su Nereo Rocco e sui mondiali del 1982, ma non era nient’altro che calcio, “applausi dagli analfabeti”, Umberto Eco poteva permettersi giudizi impietosi su di lui. Il tennis non era migliore. Nel 1974 Clerici pubblicò un libro monumentale sulla storia di questo sport: “500 anni di tennis”.

 

[**Video_box_2**]Intanto scriveva romanzi sugli animali, commedie per il teatro. Era stato “poeta momentaneo” in due raccolte di poesie. Una sera un signore di Mantova  gli fece la stessa domanda che gli aveva rivolto Maria Bellonci molto tempo prima. Clerici si risentì, è vero che aveva passato la vita a rincorrere una pallina, ma questo non bastava a definirlo. Nel 2006 entrò nella Hall of Fame del tennis, unico giornalista non anglosassone a farne parte: se lo era meritato. Ha scritto mezzo secolo di cronache tennistiche, raccontato la divina Suzanne Lenglen, i gesti bianchi e il torneo di Wimbledon. Ha soprattutto  capito che i giocatori bisogna considerarli dentro al campo, fuori sono tutta un’altra storia. Quella definizione che lo rincorre da tutta la vita sicuramente non basta, è anche vero però che in Italia nessuno ha raccontato questo gioco meglio di lui, quello del tennis.

Di più su questi argomenti: