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“Lavorare meno per lavorare tutti”. Bello, ma falso

Lorenzo Borga

L’idea di Catalfo si scontra con la bassa produttività del lavoro italiana. E alla parità di salario dovrebbe pensare lo Stato

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La ministra del Lavoro Nunzia Catalfo sembra voler tentare di mettere il mantra sindacale “lavorare meno per lavorare tutti”. Secondo quanto riportato da alcuni giornali, all’interno di un’ampia riforma degli ammortizzatori sociali (di cui c’è estremo bisogno) il governo è intenzionato a introdurre la possibilità per le aziende di ridurre l’orario di lavoro dei dipendenti a patto che l’impresa aumenti l’organico. Ai lavoratori, nelle intenzioni, sarebbe garantita la parità di salario. E chi pagherebbe? A farlo sarebbe lo Stato, e quindi tutti i suoi contribuenti.

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La ministra del Lavoro Nunzia Catalfo sembra voler tentare di mettere il mantra sindacale “lavorare meno per lavorare tutti”. Secondo quanto riportato da alcuni giornali, all’interno di un’ampia riforma degli ammortizzatori sociali (di cui c’è estremo bisogno) il governo è intenzionato a introdurre la possibilità per le aziende di ridurre l’orario di lavoro dei dipendenti a patto che l’impresa aumenti l’organico. Ai lavoratori, nelle intenzioni, sarebbe garantita la parità di salario. E chi pagherebbe? A farlo sarebbe lo Stato, e quindi tutti i suoi contribuenti.

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È un modello che può funzionare? La riduzione dell’orario di lavoro è da sempre un obiettivo del sindacato italiano. In effetti guardando i dati internazionali viene spontaneo chiedersi se sia fattibile. Secondo l’Ocse, i lavoratori italiani sono tra quelli che lavorano più ore a settimana in Europa. L’anno scorso in media circa 33 ore a settimana. In Spagna sono state 32 e mezzo, nel Regno Unito 29 e mezzo, in Francia quasi 29 e in Germania solo 26 e mezzo. E d’altra parte il nostro paese ha uno dei tassi di occupazione più bassi del Continente, in particolare per le difficoltà di donne e giovani di entrare nel mercato del lavoro e trovare un’occupazione. Secondo i proponenti dunque si potrebbe ottenere uno scambio: un po’ meno ore di lavoro settimanali per chi ha già un’attività e un nuovo lavoro per chi invece lo cerca ma non lo trova. Sarebbe la panacea a un doppio problema italiano.

    

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Il tema d’altronde è tornato d’attualità anche per la nuova proposta del sindacato tedesco dei metalmeccanici, IG Metall. L’organizzazione ha infatti annunciato che nella prossima negoziazione per il rinnovo dei contratti proporrà l’introduzione di una settimana lavorativa di quattro giorni garantendo il livello salariale dei lavoratori, in modo da permettere al settore economico di rispondere alla crisi.

   

Ci sono però vari problemi per cui la proposta potrebbe non realizzarsi come nelle intenzioni del governo. Il primo è il più intuitivo: la proposta della ministra Catalfo, se applicata a tutti i settori e tutte le aziende, potrebbe costare molti soldi pubblici. Si tratterebbe in sostanza di una cassa integrazione parziale e permanente, in cui lo Stato pagherebbe una parte della retribuzione dei dipendenti per – letteralmente – non fare nulla. La domanda che bisogna porsi è: per ogni euro pubblico, quanti nuovi lavori si creerebbero? Ci sarebbero altre forme di spesa con ritorni maggiori? Sappiamo che la cassa integrazione è costosa – ce lo ha insegnato il 2020 – e quei miliardi, se mai la proposta Catalfo vedesse la luce, potrebbero probabilmente essere meglio investiti altrove per aumentare di più l’occupazione.

   

Inoltre il mercato del lavoro non è fisso. Se riduciamo le ore lavorate di chi un lavoro lo ha, non è automaticamente detto che siano assunti nuovi lavoratori per coprire quelle stesse ore mancanti alle aziende. È così per molti motivi: il fatto che le aziende devono fare fronte anche a costi fissi per ogni lavoratore, la possibilità per le aziende di rimpiazzare i dipendenti con macchinari invece che con nuove assunzioni e la circostanza per cui le persone disponibili sul mercato del lavoro potrebbero non avere le competenze richieste. E disoccupazione e ore lavorate non sembrano così legate: da anni le seconde si riducono in Europa (da 38 nel 1996 a meno di 36 nel 2017) mentre la disoccupazione segue dinamiche legate alle espansioni e crisi economiche.

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E poi c’è un terzo punto, spesso non messo a fuoco dalla politica italiana. Non si possono fare questi discorsi senza tenere conto della produttività. Cioè di quanto si produce, e quindi quanto si è efficienti, al lavoro. In Italia poco, rispetto ad altri paesi. Ma il vero problema è la mancanza di progressi: la produttività del lavoro italiana è stagnante da circa tre decenni. Nel frattempo abbiamo rivoluzionato le catene di montaggio, c’è stata la diffusione di massa della rete, abbiamo imparato a connettere qualunque oggetto dalla lavatrice ai robot. Ma un’ora di lavoro in Italia oggi, in media, rende quanto rendeva nella metà degli anni ’90. E questo è un problema se si vuole ridurre l’orario di lavoro. Perché tendenzialmente i paesi in cui si lavora meno sono quelli in cui si guadagna di più: perché la produttività del lavoro è così alta che si può ridurre l’orario di lavoro e comunque mantenere alti stipendi.

    

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E poi ci sono gli esempi storici. La Francia ha provato a mettere in pratica il mantra “lavorare meno per lavorare tutti”. Le ore settimanali di lavoro massime sono state portate infatti da 40 a 35 negli ultimi decenni. E gli economisti che ne hanno studiato gli effetti non hanno trovato conseguenze positive rilevanti sull’occupazione, anzi. Il numero di lavoratori non sembra essere aumentato a causa della riduzione dell’orario di lavoro, né in Francia né in altri paesi in cui misure simili sono state studiate (Germania, Canada, Cile, mentre c’è stato un caso positivo in Portogallo).

   

Ma la riduzione dell’orario di lavoro non è senza effetti. Alcuni studi economici hanno dimostrato che tagliare le ore lavorate provoca l’aumento del benessere dei lavoratori e, in alcuni casi, l’aumento della produttività. Purtroppo però per ridurre l’orario di lavoro senza eccessive conseguenze sul salario serve a sostegno una crescita economica sostanziosa: e in Italia probabilmente non possiamo permettercelo.

    

Per di più se a metterci i soldi dovesse essere lo Stato con una sostanziale cassa integrazione permanente. La riduzione dell’orario di lavoro è un fenomeno in atto da decenni nei paesi sviluppati, in cui l’aumento dell’efficienza permette alle aziende di far lavorare meno i dipendenti e, talvolta, pagarli anche di più. Ottenere il taglio dell’orario di lavoro per decreto e in un paese con una crescita anemica della produttività e dell’economia potrebbe rivelarsi ben presto una scelta sbagliata.

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